“Se non hanno pane, che si mangino qualche brioche”. La celebre frase di Maria Antonietta moglie di Luigi XVI, probabilmente mai pronunciata, è diventata nel tempo il simbolo di una beata insensibilità alla sofferenza sociale, che prepara catastrofi prossime venture. La clamorosa brioche di Mario Monti si è materializzata nel corso della trasmissione televisiva Matrix, quando il premier se ne è uscito con la battuta alla Maria Antonietta “il posto fisso non esiste più. Ai ragazzi dico: dimenticatelo, è monotono”.

I tempi sono cambiati e Supermario non rischia certamente la ghigliottina. Semmai, a rischio di essere ghigliottinata è un’intera coorte generazionale, quella tra i 15 e i 29 anni. La cosiddetta “Neet Generation” (not in employment, education or training); che non solo è disoccupata e non studia, ma neppure cerca un lavoro. Lo sconvolgente fenomeno dell’accettazione anzitempo di una sconfitta personale, di accantonamento dell’idea stessa di progetto di vita, che sta precipitando nel fatalismo e nella passività la fascia di età che più avrebbe il sacrosanto diritto di guardare al futuro con occhi speranzosi. La catastrofe che ormai riguarda ben il 22,1 per cento dei ragazzi e delle ragazze del nostro Paese, spariti dai circuiti della significatività prima ancora di esservi entrati.

Confindustria Varese, l’organizzazione di rappresentanza imprenditoriale di una delle zone italiane a massima industrializzazione (e ricchezza), nel suo house organ ha pubblicato di recente un rapporto al riguardo, ricco di dati che mettono i brividi. Visto che anche in quell’isola felice i Neet si aggirerebbero attorno al 17 per cento. A fronte di un tasso di disoccupazione che tra il 2007 e il 2011 è passato dal 2,6 al 5,3 per cento, perdendo per strada 11 mila addetti. Del resto, il dato regionale lombardo – con il suo 15,7 per cento – è in linea con quanto si riscontra nelle altre aree tradizionalmente “ricche”: Piemonte (16,7), Emilia Romagna (15,6), Friuli Venezia Giulia (14,1) e Toscana (15,5). Un peggioramento del benessere da una generazione all’altra, il cui costo viene stimato dalla Fondazione Dublino in 27 miliardi l’anno. Largamente il peggior dato europeo, considerando che al secondo posto di coda si piazza la Gran Bretagna con 16,4 miliardi. Ed è qui che possiamo trovare la spiegazione dei tristi ruolini di marcia che accomunano Italia e Regno Unito: i gravi processi di deindustrializzazione che caratterizzano i due Paesi.
Sicché l’esclusione dell’ultima generazione si accompagna all’handicap (purtroppo dobbiamo chiamarlo così) che è anche la più istruita rispetto alle precedenti. E proprio per questo non trova collocazione in un contesto economico/produttivo in via di inarrestabile rattrappimento. Però va detto che per gli inglesi tali processi – a partire dal lungo regno di Margaret Thatcher – discendevano da strategie deliberatamente perseguite: la finanziarizzazione della propria economia. Nel caso italiano si può parlare soltanto di sommatoria di inadeguatezze: assenza di governo politico dello sviluppo e incapacità managerial/industriale di promuovere innovazione competitiva.

Ma qui come là ci si consola con la bubbola del “workfare”, il mito che la mattanza di lavoro per giovani e vecchi invertirà la tendenza grazie alla creazione di nuovi posti di lavoro; che l’assetto economico vigente si guarda bene dal fare. Visto che all’ordine del giorno c’è solo il problema del riallineamento dei conti del sistema bancario, la messa in sicurezza del bilancio dello Stato. Mario Monti, dopo aver sfornato la sua brioche, si è molto seccato per le critiche che gli sono piovute addosso e ora replica deprecandone il presunto “buonismo”. Anche Maria Antonietta manifestava fastidio per le proteste degli straccioni parigini. Non averle ascoltate (e soprattutto capite) si rivelò un tragico errore. Ora – come sempre accade – la tragedia si mescola alla farsa: quella di prospettare il “Cresci Italia” cancellando i nuovi italiani.

Il Fatto Quotidiano, 8 Febbraio 2012

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