L’Unione europea, presa nel suo insieme, è la prima potenza economica e commerciale del mondo, con un Pil complessivo pari al 28 per cento del Pil mondiale (la quota degli Stati Uniti è pari al 24%; Cina 8,4%); è un’area di 400 milioni di persone, con un reddito medio molto alto, una vasta rete di università e di centri di eccellenza.

Eppure questa vasta area continua a guardare verso Ovest in attesa di una ripresa dell’economia statunitense. Gran parte dell’attenzione degli osservatori economici europei continua ad essere rivolta a ciò che accade negli Stati Uniti e in Asia, per capire se anche l’Europa può agganciarsi a una possibile ripresa americana o cinese. E’ sempre stato così e ancora è così. Gli europei sono ossessionati dal valore esterno dell’euro, cioè da quanto vale in termini di dollari o di yuan o di yen la nostra valuta (il tasso di cambio).

Se andate negli Stati Uniti nessuno sa dirvi quanto vale un dollaro in euro, nessuno si preoccupa del tasso di cambio. Gli Stati Uniti sono un’enorme economia che sostanzialmente è auto-propulsiva. L’Europa invece continua a ragionare come se fosse una media potenza dipendente dagli scambi con il resto del mondo.

Che ragionino così i Paesi Bassi o la Svezia è sensato. Si tratta di paesi piccoli, privi di materie prime e per forza di cose dipendenti dalle esportazioni. Ma che ragioni così la Germania, quarta potenza economica del mondo, fa molta impressione. Seguire una logica di media potenza esportatrice significa pensare che la propria crescita economica debba dipendere solo o in prevalenza dalla competitività del proprio settore esportatore, che bisogna risparmiare, che non bisogna consumare “troppo” per poter accumulare avanzi di bilancio dei pagamenti, che bisogna seguire politiche restrittive per evitare che aumentino le importazioni e i salari.

Questa logica dominante in Germania è stata trasferita a Bruxelles, è la logica dell’Unione europea. Ma l’Unione europea è un colosso dell’economia mondiale, non è un piccolo o medio paese esportatore.

Questa è una questione fondamentale. Non è possibile pensare che l’Europa sia impotente, che non possa essere padrona dei propri destini, che non possa essere in grado di sostenere la propria crescita, ma che debba scrutare con il cannocchiale ciò che accade oltre Atlantico, sperando che il consumatore americano riprenda a comprare le Bmw o le scarpe italiane o i profumi francesi.

In questo quadro c’è poi un altro paradosso, costituito dal fatto che il 34 per cento del bilancio dell’Unione europea è destinato alla Politica agricola comune (Pac). La più grande politica europea è infatti quella che attraverso il Feoga (Fondo europeo di orientamento e garanzia agricola) tiene alti i prezzi dei prodotti agricoli.

Sì, perché miliardi di euro vengono spesi ogni anno per acquistare e distruggere le eccedenze di produzione agricola, per mantenere le quote di produzione nei vari paesi, per aiutare il settore agricolo. Non solo, ma su molti prodotti agricoli, siccome i prezzi che prevalgono sui mercati mondiali sono molto più bassi di quelli necessari per far sopravvivere l’agricoltura europea, abbiamo imposto anche dei dazi alle importazioni che scoraggiano le importazioni dal resto del mondo (In questo modo tra l’altro colpiamo anche i paesi in via di sviluppo).

Si parla tanto di economia della conoscenza, di economia del futuro, di ricerca e alta tecnologia ma poi la fetta più grande del bilancio europeo non è destinata alle nuove tecnologie o all’economia eco-compatibile, ma a sussidiare l’agricoltura, soprattutto quella francese e quella dei paesi nordeuropei, perché l’Italia anche in questo non è stata capace di tutelare i propri interessi.

E’ sensato? Non sarebbe meglio orientare quelle risorse verso i settori del futuro? Se i prezzi dei prodotti agricoli scendessero, inoltre, si avrebbe un effetto benefico sui salari reali: diminuirebbe il costo dei beni alimentari con grande beneficio per centinaia di milioni di famiglie europee.

Siamo ricchi abbastanza da poter aiutare le aziende agricole che entrerebbero in crisi a riconvertirsi.

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