Cinema

Da Taxi driver a Quei bravi ragazzi. Omaggio al primo Scorsese che non si scorda mai

Al cinema Lumiere di Bologna, dal 9 al 29 febbraio venti film (che si fermano a metà anni novanta) diretti dal regista newyorchese. Prima che s'infatuasse di Di Caprio e si mettesse a girare in 3D. Scorsese è morto, viva Scorsese

di Davide Turrini

Venti non sono tanti. Però non fanno difetto in un inverno freddo freddo e avido di cinema. Parliamo dell’omaggio di venti film che la Cineteca di Bologna rende, dal 9 al 29 febbraio al cinema Lumiere, ad uno di quegli autori che hanno fondato il rinnovamento estetico hollywoodiano nel post ’68.

Martin Scorsese, dottore ad honorem in Discipline di Arti, Musica e Spettacolo il 25 novembre 2005 (nevicava anche quel giorno, per chi c’era) è stato un rifondarolo pure lui, ma non di un’ideologia politica, bensì di un “comunismo” della visione anch’esso utopico e rivoluzionario, nel suo violento e condivisibile iperrealismo, come nella sua libera e necessaria voglia di impressionare per immagini.

Non a caso, in questa retrospettiva incompleta ma utile (di retrospettiva ce n’è un’altra nella sala a fianco con i film muti dei primi del ‘900 che hanno ispirato Scorsese nonché lo spielberghiano e tridimensionale Hugo Cabret, n.d.r.), s’inizia giovedì 9 febbraio alle 22.30 (replica martedì 14 febbraio, ore 18) con America 1929: sterminateli senza pietà (1972), in originale Boxcar Bertha, l’unica vera opera prima del settantenne italoamericano newyorchese. E ancora là inchiodato sul treno merci, sta il povero ex operaio David Carradine a penzolare come un cristo in croce. In pochi l’hanno vista questa allegoria scorsesiana e cormaniana sulla grande depressione, cinica e disillusa nel rappresentare, volente o nolente, uno scontro tra classi, tra sfruttati e sfruttatori.

Tanto di cappello poi, per il capostipite del gangster movie alla Scorsese: Mean Streets (1973) – venerdì 10 febbraio, ore 22.15 (replica il 13 febbraio, ore 17.30) – il primo trattato antropologico della Little Italy, che poi diverrà sfondo di personali e devastanti capolavori, ancora impuro e magmatico: un delirio espressivo dove il sangue pulsa ancora nelle vene e non si spande a macchia d’olio come nell’oggettiva dall’alto di Quei bravi ragazzi in cui viene fatto fuori a mazzate sulla testa Joe Pesci. Che, per inciso va su grande schermo venerdì 17 febbraio (ore 22.30) dopo cinquanta ripassatine su Rete4. Imperdibile però questo monumento cinematografico del periodo più prodigioso di Scorsese anche se già visto e metabolizzato: ghignante, splatter, quasi euforico nel raccontare l’iniziazione alla malavita, piano sequenza del potere per antonomasia (l’entrata dentro al night dalla porta secondaria e tavolino in prima fila), Ray Liotta che sniffa cocaina e quasi ci si perde in quei buchi del naso dilatati in primissimo piano, l’aglio tagliato fino fino da Paul Sorvino in cella che quasi ti puzza tra indice e pollice.

Sì certo, al Lumiere danno anche Taxi Driver (sabato 11 febbraio, ore 18; replica lunedì 13 febbraio, ore 22.15), Toro scatenato (giovedì 16 febbraio, ore 22 – replica venerdì 17 febbraio, ore 17.45), New York New York (mercoledì 15 febbraio, 21.45 – replica martedì 21 febbraio, 21.30) o Cape Fear – Il promontorio della paura (martedì 28 febbraio, ore 22.15) dove De Niro e Nolte trasfigurano gli originali volti di Robert Mitchum e Gregory Peck. Eppure quel capolavoro di Quei bravi ragazzi sembra lasciare indietro perfino l’accurato calligrafismo de L’età dell’innocenza (sabato 18 alle 22.30; replica lunedì 27 alle 17.30), l’implosivo, jesuschristeriano e comunque pudico L’ultima tentazione di Cristo (mercoledì 17 febbraio, 17.45), il delirante, ciclopico e fumantino Fuori Orario (lunedì 20 febbraio, ore 20). Perché Scorsese è quella roba là: un magma in ebollizione dentro al pentolone di pummarola di mammà (la vera signora Scorsese) che fantozzianamente imbocca e sbaciucchia il figlio Joe Pesci pronto ad un’inconsapevole, mafiosissima, morte.

Gli incubi da sveglio (qui ci voleva Al di là della vita, ma nell’omaggio manca), il cattolicissimo senso di colpa eguagliato solo da Abel Ferrara e l’amore per la musica da documentare (The band sì e gli Stones no, perché?) rimangono ferite aperte che ancora sanguinano per chi ha amato visceralmente il cinema di Scorsese e ora si ritrova di fronte all’innamoramento senile per il bamboccino Di Caprio, tropical malady contratta anche dal calante Clint Eastwood, e ai peggiori travelling di una qualsiasi “movimentata” regia hollywoodiana. Invecchiare male è reato, oggi, 2012. Ancor di più se fino all’altro ieri andavi in giro a scioccare platee semplicemente spostando di 90 gradi la macchina da presa. L’Oscar alla regia con The departed, pieno di poliziotti irlandesi (irlandesi?ma dico che c’entrano dei poliziotti irlandesi con Scorsese?) doveva far pensare. Kundun, che nessuno ricorda, nemmeno Thelma Schoonmaker, e la pantomima di Shutter Island che poteva essere firmato in fondo a destra da qualsiasi altro registucolo di thriller di serie z, ci raccontano di un uomo pronto alla pensione che vent’anni fa insegnava il cinema.

Rivederseli tutti, o quasi, per credere. Tanto si fermano a metà anni novanta, ad esclusione delle produzioni in dvd da riempitivo giornaliero. Scorsese è morto, viva Scorsese.

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