Se il compito degli intellettuali è quello di comprendere la realtà e presagirne gli sviluppi, Pier Paolo Pasolini ha esagerato. Non è un caso che, ora più che mai, lo si ricordi. Giorgio Gallione ha scritto Eretici e corsari, spettacolo ben interpretato da Neri Marcorè e Claudio Gioè, che accosta Pasolini e Gaber. E Minimim Fax ha pubblicato l’encomiabile Gadda e Pasolini: antibiografia di una nazione, libro più dvd di Fabrizio Gifuni (bravissimo) e Giuseppe Bertolucci.

Significativamente, il Pasolini riscoperto è soprattutto quello degli Scritti corsari. Non il poeta, non lo scrittore, non il regista: o perlomeno, non solo. Al centro irrompe il Pasolini giornalista, urticante, lucidissimo e violentemente profetico. Il Pasolini premoriente, che – parallelamente alla stesura di Petrolio, motivo forse del suo omicidio la notte tra il primo e il 2 novembre 1975, romanzo a chiave che individuava Eugenio Cefis quale gran stratega delle stragi italiane – affondò il bisturi sui grandi mali degli anni 1973-75. La dittatura del mercato, l’omologazione culturale, la rivoluzione (involuzione) conformistica e la mutazione antropologica degli italiani. Meccanismi e implosioni che avevano reso l’uomo un «Leopardi americano», per dirla con Giorgio Gaber e Sandro Luporini: obeso, grasso e pieno di nulla.

Ripreso oggi, il Pasolini che utilizzava magistralmente l’artificio dell’invettiva – non meno di Gaber e Luporini – sembra stigmatizzare i protagonisti contemporanei: i polli di allevamento puerilmente alternativi (la demolizione di Andrea Valcarenghi è da antologia), la sinistra stoltamente dogmatica. Il nuovo fascismo. La Chiesa e i suoi «storici discorsetti di Castelgandolfo», interrotti qua e là da qualche ribelle confuso come don Milani, pervaso da «un moralismo malamente nascosto da una spregiudicatezza tutta nominale» ma comunque salvabile, poiché «figura disperata e consolatrice».

Saturno, 10 febbraio 2012

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