Lo scorso 7 di febbraio ha compiuto mezzo secolo l’embargo statunitense contro Cuba. E giusto mi sembra, in questa storica ricorrenza, tornare a celebrarne gli indiscussi e duraturi meriti. “Indiscussi” nel senso che da molto tempo – con la pressoché unica, ovvia esclusione di quel mondo a parte, feroce e insieme patetico, che va sotto il nome di “esilio cubano” – nessuno ne discute, non solo la storica ingiustizia, ma anche la totale e ormai decisamente caricaturale incongruenza. E, nel contempo, “duraturi” perché del tutto evidente è come, a dispetto della (o, paradossalmente, grazie alla) sua intrinseca e arcaica stupidità, l’embargo sia in realtà destinato a restare tra noi ancora per molti anni.
Le ragioni di tanta resistenza non sono, in realtà, affatto enigmatiche. L’embargo sopravvive e sopravvivrà (di fatto, anzi, già è brillantemente sopravvissuto all’elezione d’un presidente, Barack Obama, che prima di diventar tale sempre si era dichiarato contrario) perché tanto il regime castrista, quanto le rappresentanze politiche dell’esilio cubano negli Stati Uniti, desiderano che sopravviva. Il primo per la semplice ragione che proprio nell’eroica resistenza all’assedio del “Golia del nord” vede le ragioni storiche della propria esistenza e la giustificazione di tutti i propri fallimenti. Le seconde, per ragioni specularmente opposte. Ovvero: perché anche per loro l’embargo è diventato un modo d’essere, un mestiere, una cattiva abitudine, il frutto avvelenato d’un neppure troppo occulto desiderio di congelare la Storia, per nascondere la realtà d’una sconfitta storica (quella del ’59) le cui più profonde ragioni si rifiutano – per un istinto di sopravvivenza analogo a quello del regime che affermano di combattere – di analizzare ed accettare.
Ma l’embargo sopravvive a se stesso e all’ovvia assurdità della propria esistenza soprattutto perché Cuba è ormai diventata, per il governo degli Stati Uniti d’America, un problema di politica interna. Laddove, ovviamente, al termine “politica” s’attribuisce il meno nobile e più meschino dei suoi possibili significati. A determinare la politica cubana degli Usa è ormai – svanito anche il ricordo degli anni della Guerra Fredda e della “minaccia sovietica” – soltanto il desiderio di accaparrarsi i voti d’uno Stato, la Florida, divenuto fondamentale (ricordate la farsa dell’anno 2000?) in ogni competizione presidenziale. E nel quale da sempre fondamentale, soprattutto nella contea di Miami-Dade, è il voto dei cubani dell’esilio. Non è un caso che, proprio nel pieno della Guerra Fredda, gli Stati Uniti abbiano messo in campo, prima con Gerald Ford e poi con Jimmy Carter, i due unici seri tentativi di normalizzare le relazioni con Cuba. Il primo interrotto dall’intervento cubano in Angola (1975), il secondo (1980) dalla vicenda del Mariel (il biblico esodo di 130.000 cubani dall’omonimo porto).
Un terzo momento di possibile apertura – caratterizzato da un interessante e aspro confronto tra l’ala dura e l’ala “aperturista” dell’esilio – venne stroncata nel 1996 dall’abbattimento (quasi certamente in acque internazionali) di due arei Cesna de “los Hermanos al Rescate” (un gruppo dedito al salvataggio dei “balseros” che tentano su barche improvvisate di attraversare lo stretto della Florida per abbandonare Cuba) da parte dell’aviazione cubana. Quattro persone (cubane d’origine, ma con cittadinanza Usa) morirono. E, con loro, morì la speranza di modificare la pietrificata realtà delle relazioni tra Cuba e gli Usa. Meno d’una settimana dopo l’abbattimento dei Cesna, il Congresso Usa approvò (e Clinton entusiasticamente firmò) la cosiddetta legge Helms-Burton (da Jimmy Carter definita “la più stupida mai approvata negli Stati Uniti d’America”). O, più esattamente, quel Cuban Liberty and Solidarity Act che trasformava l’embargo – fino ad allora soltanto un decreto presidenziale – in una legge federale ed in una aberrante violazione del diritto internazionale (tanto aberrante che alcune delle sue più impresentabili parti vengo ogni anno, da sedici anni, “sospese” con decreto presidenziale).
Questo è oggi l’embargo contro Cuba. Un frammento di passato, un malcostume alimentato dalla propria impudicizia. Una prova di anacronistica imbecillità, se giudicata col metro della politica internazionale. Una testimonianza di opportunismo, se giudicata col metro della politica interna Usa. E una ormai grottesca fonte (per la più grande potenza del mondo) di periodiche brutte figure in quel dell’Assemblea Generale dell’Onu dove, da ben oltre un decennio, ogni anno viene approvata con soverchiante maggioranza (194 contro 2, l’ultima volta) una mozione di condanna dell’embargo.
La domanda, da mezzo secolo a questa parte, è: fino a quando?