di Gianpaolo Caselli*
Dagli avvenimenti greci degli ultimi giorni appare ovvio che l’eurozona si salverà solamente se potrà garantire ai suoi cittadini occupazione e miglioramenti degli standard di vita, consentendo alle economie più deboli, in particolare del sud e del centro Europa, di guadagnare competitività e di imboccare un sentiero di crescita. Per ottenere questi risultati e’ indispensabile un radicale processo di riforma e di trasformazione dell’assetto economico, politico ed istituzionale europeo che, per avere possibilità di successo, non dovrebbe mettere in pericolo la coesione sociale e lo stesso assetto democratico.
La Grecia e l’Ungheria stanno mostrando alle classi dirigenti europee due modi diversi di reagire agli effetti causati dalle politiche economiche realizzate per porre rimedio alla crisi dei debiti sovrani. Altri paesi dell’area mostrano segni evidenti di stress economico e politico come la Bulgaria e la Romania, e se la crescita non sarà presto avviata, altri paesi non marginali come Spagna, Italia ed Inghilterra si chiederanno se valga la pena di continuare a subordinare le proprie politiche economiche ad un assetto economico ed istituzionale che produce recessione e disoccupazione crescente. Certo che la situazione europea è paradossale: la politica fiscale segue i dettami della dottrina rigorista e neomercantilista tedesca, mentre la politica monetaria, con buona pace dello statuto della Banca Centrale europea, è espansiva secondo il modello americano per salvare il sistema bancario e finanziario europeo, ma senza alcun effetto sull’economia reale.
Le previsioni di crescita dell’area euro per i prossimi due anni non sono certo incoraggianti dato che tutti i paesi stanno riducendo la spesa pubblica proprio nel momento in cui la domanda privata per consumi ed investimenti è particolarmente bassa. Non vi è bisogno di molta teoria economica per capire che i prossimi due anni non vedranno grande crescita: le previsioni per Germania e Francia sono intorno all’0,5 % per l’anno corrente ed intorno al 1,5 % per il prossimo anno; per Italia, Spagna, Grecia e Portogallo la crescita sarà negativa e l’area centro europea non farà certamente molto meglio.
Se questo è il mondo che ci attende nei prossimi due anni viene naturale chiedersi quale sia la strategia tedesca, ammesso che ne esista una, al di là di vincere le prossime elezioni. Sembra, ma si tratta di ipotesi, che in qualche circolo politico tedesco si pensi che in fin dei conti il futuro dell’economia tedesca sia ad est, verso la Russia, il Kazakstan dove la signora Merkel ha appena firmato importanti accordi commerciali con il presidente Nazarbaev, e verso la Cina dove si trovano le nuove fonte di domanda per le esportazioni tedesche. Circolano scenari geo-economici secondo cui l’Europa sarà in futuro divisa in tre aree: un nucleo nord europeo che condivide i canoni rigoristi tedeschi, un’area del centro Europa che continuerà a ospitare parte della produzione tedesca decentrata e una periferia di paesi che usciranno dall’euro per tentare una crescita tirata da una moneta nazionale svalutata, dopo un durissimo adattamento economico e sociale. Se qualcuno nella classe dirigente tedesca persegue una strategia di questo tipo è sicuramente accecato da una arroganza che lo porta a sovrastimare la forza dell’economia tedesca, pensando che esista ad est un lebensraum, uno spazio vitale pronto ad essere il mercato delle merci prodotte dalla efficiente macchina produttiva tedesca che peraltro non ha ancora recuperato i livelli di investimenti precedenti alla crisi del 2008.
Sostituire in parte i mercati europei in recessione con quelli dell’est ad alta crescita non è una operazione immediata né di facile esecuzione, poiché sui mercati ad est esistono concorrenti locali ed internazionali che non renderanno facile trasformare questi mercati nel giardino di casa rappresentato per ora dal mercato europeo. Quello che sembra non venga preso in considerazione dalle classi dirigenti tedesche è che perseguire testardamente un progetto di comando tedesco sull’Europa può portare alla disgregazione della costruzione europea e di conseguenza ad un possibile ruolo periferico della Germania sulla scena mondiale.
Non basta essere forti ed efficienti per essere egemoni, bisogna anche offrire speranza e non la paura per il futuro.
*professore di Politica economica all’Università di Modena e Reggio Emilia