Nonostante tutti i dati, le polemiche e gli inviti, in Italia continano a farsi troppi parti cesarei senza un reale motivo di salute, soprattutto nelle regioni centro-meridionali e nelle strutture private. Nel nostro Paese il ricorso al parto chirurgico raggiunge un’incidenza del 38,2%, contro una media che l’Organizzazione mondiale della sanità stabilisce dover essere del 15%, e che in Europa si attesta al 20-25%. Per queste ragioni il ministro della Salute, Renato Balduzzi, ha deciso di inviare i carabinieri dei Nas a fare controlli a campione nelle strutture sanitarie pubbliche e private.
Obiettivo: accertare un eventuale utilizzo “non appropriato” del cesareo in corsia. Che il parto chirurgico continui a praticarsi in modo inappropriato lo si sa da tempo e lo confermano gli ultimi dati della commissione d’inchiesta sugli Errori sanitari di Leoluca Orlando e del ministero della Salute. Nel 2010 la percentuale di cesarei ha mostrato solo una lieve diminuzione: l’incidenza è stata del 38,2% contro il 38,4% nel 2009 e il 38,3% del 2008. I valori massimi di cesarei sono stati registrati in Campania (61,6%) e Sicilia (52,8%), e cifre superiori al 40% si rilevano in tutte le regioni del centro-sud, ad eccezione della Sardegna. ‘Migliori’ i valori di alcune regioni del Nord, che si collocano notevolmente al di sotto della media nazionale, come Friuli-Venezia Giulia (24%), Toscana (26%), Trentino Alto Adige (25%). E proprio il divario tra le Regioni é, secondo Balduzzi, un aspetto “assolutamente intollerabile. Si passa – rileva – dal 23% del Friuli al 62% della Campania. E senza che un maggiore ricorso al cesareo porti a un miglioramento degli esiti clinici”.
Differenze che si riscontrano anche tra strutture pubbliche e private: la maggior frequenza di tagli cesarei si ha infatti nei centri nascita privati (61% nelle case di cura private accreditate e 75% in quelle non accreditate) rispetto a quelli pubblici (35%). Varie le cause alla base di questo grande ‘amore’ degli ospedali italiani per il cesareo, che tra l’altro presenta un rischio di complicanze maggiore del 10% rispetto al parto naturale. La prima è di carattere economico: un taglio cesareo viene pagato alle singole realtà ospedaliere come operazione chirurgica, cioè con una cifra nettamente superiore rispetto a quella corrisposta per un parto naturale. Inoltre, quasi la metà dei punti nascita effettua meno di 500 parti all’anno, il che implica una minore sicurezza e una maggiore propensione al cesareo da parte dei medici per evitare possibili contenziosi poi. Altro dato è che solo il 16% delle strutture ospedaliere offre gratuitamente il servizio di analgesia epidurale alle pazienti, le quali spesso chiedono il cesareo proprio per paura del dolore del parto. Eppure, proprio a fine gennaio l’Istituto superiore di sanità ha pubblicato le nuove linee guida sul parto chirurgico, in cui si spiega chiaramente che sono solo tre le situazioni in cui bisogna ricorrervi: quando il feto è in posizione podalica (situazione che si registra nell’8% dei casi come media nazionale, ma con punte che arriverebbero al 21% in Campania e 10% in Sicilia), quando la placenta copre il passaggio del feto nel canale del parto e se la madre è diabetica e il feto pesa più di 4,5 chili.
Altrimenti, senza altre controindicazioni, affermano le linee guida, il parto naturale è preferibile per il benessere della donna e del bambino. Ecco dunque che, dopo tanti anni di denunce su questa situazione, ora il Ministero ha deciso di intervenire. I controlli dei Nas saranno a livello nazionale per accertare l’utilizzo non appropriato del ricorso al cesareo nei reparti di ostetricia delle strutture sanitarie pubbliche e private accreditate con il Ssn. I Carabinieri acquisiranno anche fotocopia della cartella clinica e della documentazione ecografica della paziente. Il fenomeno, avverte il ministero, “assume in alcuni casi dimensioni estreme”. L’intervento dei Nas servirà a valutare “possibili ipotesi di comportamenti opportunistici dolosi”. Si spera però che una volta rilevati, cambi qualcosa. Questa volta nei fatti. Altrimenti a pagare saranno sempre le casse dello Stato e la salute di madre e bambino.