Il destino dell’umanità è nelle mani della classe operaia cinese.
Si tratta per molti versi di un paradosso. E’ infatti noto come la rivoluzione cinese, al pari e forse ancora di più di quella sovietica, fu, per riprendere il noto intervento di Antonio Gramsci, “una rivoluzione contro il Capitale“, nel senso della principale opera di Karl Marx, in quanto partì dalle campagne ed era inevitabile, dato che all’epoca i nuclei di classe operaia erano quantitativamente alquanto scarsi e limitati a poche zone dell’immenso Paese.
Oggi che la Cina, grazie soprattutto a quella rivoluzione, si è trasformata in una delle principali Potenze mondiali e nella “fabbrica del mondo”, la classe operaia vi ha assunto una grande importanza numerica, ma ancora politicamente insufficiente, anche a causa – ecco un altro paradosso – del regime instaurato dalla vittoria dell’ala tecnocratica del Partito comunista cinese, uscita allo scoperto dopo la morte di Mao Zedong e definitivamente consolidatosi con la sanguinosa repressione della manifestazione di Piazza Tien an Men, nel 1989, repressione scatenata proprio dal tentativo di saldare alla protesta studentesca quella di crescenti masse operaie che stavano affluendo al centro di Pechino.
La subalternità politica e sociale della classe operaia cinese costituisce una delle cause della situazione di squilibrio programmato che è alla base dell’attuale situazione di instabilità e crisi economica e finanziaria mondiale. La Cina, infatti, e con essa altri Paesi asiatici, è la principale creditrice degli Stati Uniti e contribuisce ad alimentare la situazione di deficit permanente nella causa si trova la potenza (ancora per poco) egemonica.
Questo perché, come sappiamo, l’economia cinese, come pure quella di altri Paesi asiatici, è volta principalmente a esportare, acquistando così il surplus di valuta sul quale, mediante l’indebitamento, si regge l’economia statunitense e portando l’attuale sistema mondiale in crisi. Rinvio al riguardo alle appassionanti analisi di Marazzi, Chesnais, Eichengreen e altri che ho avuto modo di conoscere e citare nel mio saggio Capitalismo finanziario e diritto internazionale: una partita aperta, inserito nel libro Il diritto contro la crisi: analisi e proposte, di prossima pubblicazione nella collana Globalizzazione e diritto, curata dal sottoscritto per Aracne.
L’apertura agli investimenti esteri, necessaria dal punto di vista cinese per superare il gap tecnologico con l’occidente, ha consentito a talune multinazionali, prima fra tutte la Apple dell'”illuminato” Steve Jobs, di produrre a costi estremamente contenuti grazie al supersfruttamento di una manodopera priva delle più elementari garanzie, come ci spiega un impressionante articolo del New York Times apparso sull’ultimo numero di Internazionale.
Proprio la crisi economica ha spinto peraltro la classe dirigente cinese a cambiare in parte il proprio approccio, orientandosi in una certa misura verso lo sviluppo del mercato interno e chiedendo il superamento della situazione di dominio del dollaro sui mercati.
Segni interessanti, che dimostrano come sia necessario e possibile passare a una fase di effettivo governo multilaterale dell’economia globale.
Ma non basta. La classe operaia cinese deve oggi esprimere tutta la sua forza affinché entrino definitivamente in crisi gli instabili e iniqui equilibri attuali e si combatta a fondo la deflazione salariale che costituisce una delle principali cause della crisi in corso. Ciò determinerà una crisi e/o un significativo riorientamento del ruolo-guida del Partito comunista cinese. Ma avrà effetti ben al di là della situazione cinese.
I padroni, poveretti, non sapranno più dove delocalizzare le loro produzioni. O meglio proveranno, ed è un processo in parte già in atto, a trasferirle in luoghi ancora più lontani e sprovvisti di elementari garanzie. Ma anche lì, è inevitabile, si estenderà il contagio della lotta di classe. A condizione, beninteso, di forgiare soggetti sindacali e politici adeguati e collegati fra di loro sul piano internazionale.
Ecco perché la battaglia che si combatte in Cina è una battaglia fondamentale per la democrazia e l’avvenire del pianeta. Non già, sia ben chiaro, in nome di oramai squalificati ideali di “democrazia” occidentale nei quali credono solo pochi “intellettuali” sfigati e alquanto ignorantelli. Ma in nome di un nuovo avvenire per l’insieme del pianeta, che è possibile, dati i fallimenti del capitalismo, solo all’insegna del socialismo.
Ma di quello vero, che dobbiamo inventare in questo difficile e cruciale momento di transizione storica. Un socialismo di tipo nuovo, che richiederà il superamento dei gravi errori, e anche dei crimini, commessi all’insegna dello stalinismo e l’adozione di un nuovo e più avanzato orizzonte ideologico basato anche sulla valorizzazione delle differenze culturali e di altro genere, come elementi che è necessario riconoscere per pervenire a più avanzati livelli di unità e costruire una società mondiale finalmente basata sui principi fondamentali di eguaglianza e rispetto, sia del prossimo che della natura.