Lo ha stabilito la Corte Europea, includendo dal primo gennaio nell’Emission Trading Scheme (ETS), sistema di regolamentazioni creato per ridurre le emissioni di CO2, anche le compagnie aeree extra-comunitarie. Che, ora, sono sul piede di guerra. A partire dalla Cina
Nel settore dei trasporti, gran parte delle emissioni di gas serra proviene dal traffico aereo. Giusto per fare un esempio, un volo andata e ritorno dall’Italia a New York produce per una singola persona ben due tonnellate e mezzo di CO2. Un fatto che non sembra preoccupare più di tanto le grandi potenze economiche. Tranne l’Ue, che nonostante la minaccia di dure guerre commerciali con i colossi globali ha creato l’ETS, un sistema con cui alle industrie più inquinanti (di ogni settore) vengono imposti dei limiti nelle emissioni annuali di diossido di carbonio. Uno schema che può nascondere delle ambiguità, ma che per primo fa un passo verso la lotta ai cambiamenti climatici.
I diverbi sono iniziati quando le compagnie statunitensi, nei mesi scorsi, avevano fortemente contestato il possibile recepimento della direttiva europea. Per le flotte a stelle e strisce, infatti, le norme sarebbero “in aperta violazione della sovranità nazionale e degli accordi internazionali”. Una scelta “legittima”, hanno invece risposto i giudici della Corte europea, che “non viola le regole del commercio internazionale, né del trasporto aereo”.
Connie Hedegaard, Commissario Europeo per il Clima, si dice “molto soddisfatta di vedere che la Corte ha concluso con chiarezza che la direttiva europea è completamente compatibile con la legge internazionale”. “Alcune compagnie aeree americane hanno deciso di sfidare la nostra legislazione in un tribunale”, ha ricordato Hedegaard riferendosi ad una legge del Senato Usa che potrebbe addirittura impedire alle compagnie statunitensi di aderire ai mercati delle quote di CO2. Ciononostante, aggiunge il Commissario europeo, “ci aspettiamo che rispettino la legge europea”.
Ma così non sarà, perlomeno con le quattro maggiori compagnie cinesi. Air China, China Southern Airlines, China Eastern Airlines and Hainan Airlines, che trasportano in Europa decine di milioni di passeggeri ogni anno, hanno infatti reso noto attraverso Cai Haibo, segretario generale della China Air Transport Association, che la Repubblica Popolare “non coopererà con l’Unione europea sugli ETS”, e che “le compagnie aeree cinesi non imporranno sovrapprezzi ai loro clienti per le tasse dovute alle emissioni”.
Ciò che indispettisce maggiormente queste aziende è la decisione della Corte europea di mettere sullo stesso piano i Paesi industrializzati e le economie emergenti. Per il gigante asiatico non è ragionevole che l’Europa applichi le sue politiche ai Paesi in via di sviluppo, le cui compagnie aeree avranno più difficoltà nel tagliare le emissioni in eccesso. Inoltre, accusano da Pechino, i costi della riduzione di carbonio dovrebbero essere addebitati alle ditte costruttrici, perlopiù situate in Europa ed Usa, in modo da portarle a fabbricare aerei più efficienti.
Riguardo ai costi, i gruppi extra-Ue stimano che la realizzazione della direttiva, che fa pagare 100 euro per ogni tonnellata di CO2 in eccesso, costerà quasi 10 miliardi di euro da qui al 2020. Il che comporterà, per i passeggeri, un aumento medio del prezzo del biglietto di circa 7 euro. Cifra risibile, se si pensa a quanto può costare un viaggio intercontinentale.
Invece di lamentarsi per dovere far pagare ai propri passeggeri qualche euro in più a biglietto, “le compagnie aree potrebbero procedere alla modernizzazione delle flotte, all’efficientamento dei consumi di carburante e all’utilizzo di combustibili non fossili per l’aviazione”, suggerisce Connie Hedegaard. E anche fra i diretti interessati c’è chi le dà ragione. La Cathay Pacific di Hong Kong e la Singapore Airlines hanno infatti affermato che cercheranno di compensare queste spese proprio migliorando l’efficienza dei loro velivoli.