“Non si esce vivi dagli Anni Ottanta”. Lo cantavano gli Afterhours, mentre Enzo Jannacci parlava di “brutta musica fatta solamente con la batteria”. Certi miti potevano brillare unicamente in quel decennio-parentesi. Lo sta scontando Sinead O ’ Connor. Ha avuto modo di accorgersene Michael Jackson. E non poteva uscirne viva Whitney Houston. Non poteva sopravvivere, né sopravviversi. Figlia di Cissy Houston (corista delle Sweet Inspirations), cugina di Dionne Warwick. Aretha Franklin per madrina, non per maestra: non ne è mai stata erede. Non ci ha provato musicalmente, preferendo il pop al rischio; e in ogni caso non se ne è data il tempo.
“Houston abbiamo un problema”, hanno cinguettato i social network, così desiderosi di non apparire retorici da tracimare nel cinismo più abietto. E “Whitney” diventava “Whisky”. La sua morte è stata paragonata con quella della Winehouse, ma c’entra poco. Amy se n’è andata quando aveva tanto da cantare, Whitney è svanita quando aveva detto apparentemente tutto. Vent’anni dopo l’apice. Se un paragone esiste, è con Elvis. Lui – dicono – crepò sulla tazza del cesso, ingurgitando un panino di troppo. Lei nella vasca da bagno di una suite a Beverly Hills, forse affogata, probabilmente stordita da un mix di alcol e Xanax (antidepressivi). L’11 febbraio 2012, a 48 anni. Adele, celebrata il giorno dopo ai Grammy, ha costruito una carriera su un amore sbagliato; Whitney, il contrario. Nel lungo tempo della speculazione si azzarderanno ipotesi, si racconteranno gli ultimi istanti (magari intervistando la figlia Bobbi Kristina). Si aumenteranno i prezzi dei Best Of (da 5 a 8.5 euro su iTunes Store), si trasmetterà Bodyguard in heavy rotation. E si snocciolerà il rosario dei peccati: le foto strafatta, i vent’anni di agonia.
Le figuracce, i fischi, il sorriso da pazza. Il corpo che si allarga e stringe. La causa col padre padrone. E quell’autobiografia non autorizzata, Good girl bad girl, che aggiungeva altri spettri. Ad esempio la liaison con un’amica d’infanzia e la dolorosa “svolta” eterosessuale. Randall Cunningham, Eddie Murphy. Fino al matrimonio disgraziato con Bobby Brown, rapper violento e drogato, che le regalò la tossicodipendenza e un reality autobiografico: una coppia scoppiata, da dare in pasto al mondo. Whitney era morta da tempo. Nonostante i dischi che le confezionavano. Neanche la sua voce, straordinaria origine, esisteva più. Un amico, Marlon David, raccontò nel giugno 2010 che la Houston si faceva accompagnare stabilmente da uno spacciatore di fiducia, arrivando a spendere fino a 6300 dollari a settimana. “Whitney è un morto che cammina. Con la quantità di droga che compra ogni settimana, non vivrà a lungo. Morirà in pochi mesi”.
Aveva una maniera di cantare dispendiosa, e sconsigliata dai medici, che la spinse ulteriormente a cercare “aiuti” per reggere la fatica. I Wanna Dance With Somebody (Who Loves Me), I’m Your Baby Tonight, I Will Always Love You (una cover); e quel filmaccio sulla guardia del corpo: ci ha lasciato, soprattutto, questo. Troppo mainstream per i puristi, troppo poco razionale per una carriera mercantile come Madonna. Icona e meteora, emblema di un decennio apparentemente frivolo e in realtà spietato. Bella senz’anima nei motivetti di successo, demone di se stessa nella realtà. Fragile, commerciale, dotatissima. Popstar, forse suo malgrado.
Il Fatto Quotidiano, 14 Febbraio 2012
(Foto: LaPresse)