La trovata concepita per ridurre del 70 per cento le emissioni di polveri inquinanti che si sollevano dal parco minerali dello stabilimento e soffocano gli abitanti del quartiere Tamburi. Scettici i comitati per l'ambiente
Due chilometri di reti per ridurre del 70 per cento le emissioni di polveri inquinanti che ogni giorno si sollevano dal parco minerali dello stabilimento Ilva di Taranto e soffocano gli abitanti del quartiere Tamburi. E’ la proposta dei vertici dello stabilimento siderurgico, di proprietà della famiglia Riva, alla vigilia dell’udienza dinanzi al Gip Patrizia Todisco, in cui sarà discussa la perizia disposta dal magistrato che, per la prima volta, ha messo nero su bianco la situazione ambientale del capoluogo ionico. Una situazione allarmante, come ha scritto il procuratore Franco Sebastio in una lettera al ministro Clini, al governatore Vendola e alle istituzioni locali, per chiedere quali provvedimenti intendano adottare per tutelare la salute dei cittadini. Una missiva che finora non ha avuto alcuna risposta.
L’azienda ha illustrato in conferenza stampa il progetto che servirebbe a ridurre il pericolo delle polveri che, come secondo i periti nominati dal Gip, rappresentano il problema principale: solo dal parco minerali, infatti, ogni anno si diffondono senza controllo 668 tonnellate di polveri. Per i vertici di Ilva spa la costruzione di una barriera frangivento, alta oltre venti metri, intorno all’area dove sono depositate le collinette di minerale di ferro e carbone servirebbe a rallentare la velocità del vento e intrappolare le polveri. Ma i rappresentanti dell’azienda hanno sottolineato tuttavia che la piena efficacia di questa misura, che dovrebbe essere ultimata nei prossimi quindici mesi, è valutabile soltanto se Comune e Provincia di Taranto provvederanno all’innalzamento delle colline ecologiche che separano il quartiere dallo stabilimento.
“Ma come può l’Ilva quantificare la percentuale di riduzione di emissioni ‘diffuse’ che in quanto tali non sono misurabili?”. E’ l’interrogativo posto da Biagio De Marzo, portavoce degli ambientalisti ionici, che aggiunge poi sarcasticamente come “le uniche persone in grado di stabilire la quantità di polveri che si sollevano dal parco sono le donne del quartiere Tamburi, costrette ogni giorno a ripulire finestre, balconi e interi appartamenti dalle polveri che arrivano dallo stabilimento”.
Ma la vera speranza degli ambientalisti, all’indomani della sentenza Eternit che ha riconosciuto i vertici dell’azienda responsabili di disastro doloso e di omissione delle misure antinfortunistiche, è che anche Taranto possa diventare un caso di rilevanza nazionale. “Forse quello ionico – spiega Alessandro Marescotti – è addirittura peggiore del caso di Casale Monferrato perché il danno genotossico causato dalla diossina e dagli altri inquinati non si manifesta nel breve periodo, ma si potrebbe addirittura manifestare nei prossimi decenni”.