Ogni anno la stessa storia. Polemiche, attesa, professioni d’indifferenza: ma quant’è grande Sanremo?
Il Festival, sì proprio lui. C’è chi lo vorrebbe svilire, ridimensionare o addirittura mandare in pensione. Eppure siam sempre qui, in milioni. Dopo 61 anni di onorata – si fa per dire – attività.
Perché Sanremo è molto più che un concorso canoro o un programma televisivo, a volte riuscito e a volte no: è un fenomeno d’italianità. Con le sue brutture ed esagerazioni, con i suoi slanci di bellezza il Festival cresce e si trasforma a nostra immagine e somiglianza. E ci ricorda chi siamo: oggi, la società del televoto e dei reality, della superficialità massificata. Ma con ancora qualche lampo di coscienza: lo dimostra l’ultima vittoria di Vecchioni, a furor di popolo dopo i fasti tributati nel 2010 a Valerio Scanu.
È questione socio-antropologica, allora: prezioso documento di cronaca dell’Italia passata, presente e futura. Specchio di un popolo velatamente maschilista, con l’immancabile tradizione della valletta-oggetto. Eternamente, futilmente polemico, con i suoi polveroni a ciclica ripetizione: da Emanuele Filiberto a “Bella ciao”, sino al cachet di Celentano. Popolo di fanfaroni, certo, ma pure poeti ed artisti, senz’alcuna apologia: perché c’è il valore documentario e quello oggettivo, perché Sanremo è anche il luogo della musica. Quella con la “m” maiuscola, manifestazione d’arte. Di qui sono passati Mina e Battisti, Morandi e Vasco Rossi: giganti della canzone nostrana e non solo, Louis Armstrong e i Queen. E sempre qui sono nati Ramazzotti e la Pausini – milioni di copie vendute nel mondo, piaccia o meno –, ma anche Jovanotti ed i Subsonica. Gli elenchi sono sempre lacunosi, si rischia di far torto a molti: anche perché quel palco non si è mai negato a nessuno, casa della tradizione aperta all’avanguardia, sempre con prudenza.
Sanremo è l’Italia, inutile negarlo: l’Italia sotto i riflettori, l’Italia cerchiobottista e politicamente corretta, ad ogni costo; l’Italia un po’ dimenticata ed un poco da dimenticare. Non c’è scampo: lo riconoscono persino le emittenti rivali, che puntualmente sbaraccano il proprio palinsesto. Tacito accordo di non belligeranza in nome della tradizione (e dei reciproci interessi), in perfetto spirito italiano: sarebbe lesa maestà. E gli italiani son riverenti per natura.
Dalla pagliacciata in salsa tricolore del finto suicidio architettato nel ’95 per alzare gli ascolti, alla poesia dell’omaggio a De Andrè nel decennale della sua scomparsa il passo è veramente breve: il minimo comune denominatore è il palco dell’Ariston. E siamo noi. Insomma, il Festival è storia, è il “volare” di Domenico Modugno e la morte di Luigi Tenco. È una ricorrenza di cui non ci libereremo tanto facilmente. E forse è giusto così. Perché chi non lo guarda ne parla. E chi lo critica lo esalta. E in molti, nonostante tutto, lo amano. Come un parente imperfetto, che rivedi una volta l’anno; ma appartiene sempre, e per sempre, alla nostra grande famiglia.
Perché Sanremo è Sanremo.
Lorenzo Vendemiale