Nell'interrogatorio ai pm di Palermo, l'ex ministro della Giustizia non chiarisce il mistero del carcere duro revocato a centinaia di mafiosi nella stagione delle stragi: "Sì, mi pare un po' strano", si limita a dire. Il magistrato milanese arrivato al vertice dell'amministrazione penitenziaria senza averne i titoli, al posto dell'intransigente Niccolò Amato
Trecento provvedimenti di 41 bis non rinnovati nel novembre 1993 a detenuti mafiosi per dare un “segnale positivo di distensione” mentre Cosa Nostra continuava a disseminare bombe in tutta Italia. Un proposta avanzata dal vice capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Di Maggio, nominato nonostante non avesse i titoli richiesti dalla legge. E nessuno oggi sa spiegare perché la scelta cadde proprio sul magistrato milanese: non lo sa il suo capo Adalberto Capriotti, che se lo trovò quasi imposto come vice, e non lo sa la persona che effettivamente lo nominò, ovvero l’allora Ministro della Giustizia Giovanni Conso.
Per Conso, Di Maggio fu scelto soltanto “perché andava in televisione”. Il procuratore capo di Palermo Francesco Messineo, l’aggiunto Antonio Ingroia e i sostituti Nino Di Matteo e Lia Sava stanno cercando di mettere in ordine alcuni tasselli fondamentali della cosiddetta trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra. In particolare i magistrati palermitani stanno cercando di capire perché nel 1993 vennero lasciati scadere circa trecento provvedimenti di carcere duro, anche per boss mafiosi di primo piano, proprio mentre l’offensiva stragista di Cosa Nostra stava raggiungendo il culmine con gli attentati di Roma, Milano e Firenze.
Quell’appunto datato 26 giugno 1993 era stato siglato dall’allora capo del Dap Adalberto Capriotti, e oltre al consiglio di non prorogare 373 casi di 41 bis conteneva anche la proposta di una riduzione successiva di un altro 10 per cento dei restanti regimi di carcere duro. Proposta motivata così: “Questi provvedimenti – si legge nell’appunto – costituirebbero sicuramente un segnale positivo di distensione”. Capriotti, interrogato dai magistrati il 14 dicembre del 2010 aveva semplicemente risposto di non saperne nulla: “Non ne venni a conoscenza – dice quello che era allora il capo dell’amministrazione carceraria – D’altra parte tra le carte questa mancata proroga, questo elenco che lei dice, fu portato a conoscenza del Ministro”.
Il ministro, ovvero Giovanni Conso, non ha però chiarito per nulla le dinamiche che hanno portato l’amministrazione carceraria a lasciare scadere quei 373 decreti di carcere duro. “Sì, mi pare un po’ strano effettivamente – ha detto l’ex guardasigilli ai magistrati palermitani lo scorso 21 dicembre – siccome si discuteva molto, tutti parlavano, anche i giornali, c’erano continue riunioni eccetera, ciascuno voleva dir la sua, mentre la norma dice che è il Ministro, è un potere del Ministro, potere/dovere del Ministro prorogare o non prorogare”.
Dall’ interrogatorio di Conso non si riesce soprattutto a capire per quale motivo come vice di Capriotti venne scelto Francesco Di Maggio. All’epoca del suo arrivo al Dap, infatti, Di Maggio, che è deceduto nel 1996, aveva la qualifica di magistrato di tribunale distaccato all’Onu, mentre per essere nominato all’amministrazione carceraria occorre almeno essere magistrato di corte d’appello. L’ostacolo venne superato grazie alla nomina di Di Maggio a consigliere di Stato. I magistrati però vogliono capire se c’era una volontà specifica esterna al ministero della giustizia che spingesse per l’arrivo di Di Maggio al Dap.
Conso ha ribadito di avere fatto la scelta in piena autonomia: “L’ho scelto io e ho fatto una scelta anche legata alla disponibilità delle persone”. Ma quando i pm palermitani gli hanno chiesto le motivazioni che lo hanno indotto a scegliere proprio Di Maggio, che non aveva alcuna competenza specifica per quel delicato ruolo all’amministrazione penitenziaria, l’ex guardasigilli si è limitato a dire “era una persona che andava un po’ in televisione, diciamo così, quindi era combattivo, attivo, esternava, era un esternatore e mi era parso molto efficace”. Una giustificazione che non è ritenuta credibile agl’inquirenti palermitani.
Tra l’altro dalle dichiarazioni dell’ex guardasigilli emerge un altro rebus: ovvero quello relativo al pesante scontro avuto dallo stesso Conso proprio con Di Maggio. A riferire dell’alterco tra il guardasigilli e il vice capo del Dap era stato Capriotti che così aveva riassunto quell’episodio: “Ho assistito a violentissima lite, sempre per ragioni di ufficio, fra Conso e questo Di Maggio e io mi misi di mezzo perché Di Maggio, oltre a dargli del tu, lo insultava e insomma io non potevo permetterlo, e per la mia posizione e perché Conso era il nostro ministro, era il nostro ministro e questo non si può fare”.
Conso però stranamente non ricorda nulla di quell’episodio. “Non credo che si sarebbe neanche permesso – dice Conso ai magistrati – né io l’avrei permesso di farmi insultare, avrei replicato, però ciascuno interpreta a modo suo, uno come Capriotti tutto ligio, tutto eeh… l’altro (Di Maggio) che era un esuberante, c’era anche nel loro modo di comportarsi e di valutarsi a vicenda, diverso, quindi non… a me non… a questi limiti no, che ci sia stato da parte di un impulsivo come era Di Maggio magari una battuta: eh ma lei magari Ministro non capisce questa cosa… be’, non vuol dire che è stato un alterco, ecco…”.
Sia Capriotti che Di Maggio vennero nominati ai vertici del Dap in sostituzione di Niccolò Amato, che poco prima era stato pesantemente minacciato in una lettera inviata da anonimi familiari di detenuti al presidente della repubblica Oscar Luigi Scalfaro e alle autorità competenti. In quella missiva Amato era indicato come un dittatore che aveva a suo servizio degli squadristi, ovvero i secondini delle carceri. Amato infatti era probabilmente inviso ai detenuti per il suo atteggiamento intransigente e per le proposte d’intensificare il regime di 41 bis dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio. E nessuno lo avvisò mai delle minacce contenute in quella lettera.