Mario Monti ha detto no alla candidatura di Roma per le Olimpiadi 2020. Eppure i sostenitori della gloriosa e patriottica iniziativa avevano presentato conti da cui si deduce infallibilmente che l’operazione non sarebbe costata praticamente nulla alle nostre esangui casse pubbliche, così come è stato ampiamente dimostrato anche per l’Expo 2015 di Milano e, prima, per le Olimpiadi di Torino.

Vediamo come sono organizzati questi luminosi conti sulla convenienza pubblica di questa faccenda (e delle altre citate, con approccio analogo). Tale convenienza è evidente dai numeri: 8,2 miliardi era la spesa pubblica necessaria, 3,5 miliardi i ricavi diretti previsti (biglietti e sponsorizzazioni, valorizzazioni immobiliari, ricavi dagli impianti in tempi successivi ecc.). Altri 4,6 miliardi i maggiori ricavi dell’Erario, dalle tasse generate da tutte le infinite attività economiche indotte dall’evento. Alla fine il costo pubblico netto sarebbe stato di soli 100 milioni di euro, quisquilie. Peccato che i costi pubblici previsti siano certi (anzi, in generale i consuntivi tendono a essere molto più alti dei preventivi), e i ricavi assolutamente no.

E il problema non è tanto che spesso arriva meno gente, o ci sono meno attività indotte, o gli impianti non servano più a nulla, e anzi generano alti costi di manutenzione o di demolizione, come a Torino. Il problema è che nessuno fa dei conti ex-post, cioè i risultati economici veri non si sanno mai. A chi interessa infatti fare i conti? L’evento è sempre e comunque dichiarato “un grande successo”; a quale dei soggetti promotori piacerebbe che emergesse che si è trattato di uno spreco di soldi pubblici? Per stare sugli aspetti tecnici poi, si badi che qualsiasi spesa pubblica genera attività e ritorni fiscali indotti. Ma non è legittimo considerarli come dei “benefici”, se non confrontandoli con i risultati che si otterrebbero spandendo quei soldi pubblici diversamente (o lasciandoli nelle tasche dei contribuenti).

I precedenti notoriamente catastrofici di questi grandi eventi sono però numerosi, e ben documentati: si è già detto degli impianti deserti di Torino (che apparentemente ha generato solo un piccolo passivo, ma al netto di 2 miliardi di soldi pubblici a fondo perduto). Anche le Olimpiadi di Vancouver sono andate male, come i Giochi del Commonwealth indiani, e le Olimpiadi di Londra presentano già adesso una crescita dei costi del 50 %, che preoccupa molto gli inglesi. C’è poi il celebre caso di Atene: le spese pubbliche per le olimpiadi sono giudicate uno dei fattori del dissesto finanziario dello Stato greco (circa il 6 % del Pil, e i costi finali sono stati il doppio di quelli previsti). Ma anche la Spagna (che ora ha qualche problema di buco di bilancio…) non ha scherzato: l’esposizione di Siviglia oggi è un deserto di rovine, e quella di Saragozza è stata un celebre flop: il sindaco intervistato in proposito, dichiarò candidamente: “Flop? Quale flop, sono arrivati un sacco di soldi pubblici alla città!”.

Sono invece andate molto bene le olimpiadi americane, di Los Angeles e di Atlanta, per le casse pubbliche: le hanno pagate quasi interamente i privati, ma lì non si fidano dei conti fantasiosi dei promotori, se non accompagnati da denaro sonante, e tanto. Certo, gli stadi erano brutti, a volte addirittura fatti coi “tubi Innocenti”. Mai e poi mai dal ricco Stato italiano (e ancor meno dai costruttori interessati) sarebbe accettata una simile volgarità, che diamine! In Italia di solito i grandi eventi di dubbia utilità sono un’ulteriore riprova dell’irrilevanza attribuita da molti politici al denaro pubblico.

Così come le grandi opere: la governatrice del Piemonte, quando le chiesero alla radio, un paio di anni fa, se l’aumentato del costo della linea Torino-Lione di due miliardi di euro la preoccupasse, rispose che la cosa non era assolutamente un problema. E purtroppo dal governo Monti finora non sono giunti segnali di volere fare con urgenza una spending review sulle grandi opere berlusconiane, basata su analisi costi-benefici comparative, come aveva fortemente raccomandato il Governatore uscente della Banca d’Italia Draghi presentando una ricerca sul tema fatta dalla banca solo l’anno scorso.

Il Fatto Quotidiano, 16 Febbraio 2012

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