È morto a 43 anni Anthony Shadid, inviato del “New York Times” in Medio Oriente. Secondo le prime informazioni, gli sarebbe stato fatale un attacco d’asma, mentre si trovava per lavoro in Siria. Una ricostruzione di quanto avvenuto è stata offerta da Tyler Hicks, fotografo del “Times”, che si trovava con Shadid nel Paese travolto dalla rivolta contro Assad. I due seguivano le attività dei gruppi della resistenza al regime in una zona non precisata (il governo siriano non era stato informato della presenza dei due giornalisti dalla direzione del giornale di New York).
Shadid e Hicks erano entrati clandestinamente in Siria una settimana fa, viaggiando la notte attraverso una zona montagnosa al confine tra la Turchia e la provincia siriana di Idlib. Secondo il racconto di Hicks, avevano sollevato a forza, con le mani, la recinzione di filo spinato tra i due Paesi, trovando dall’altra parte del confine delle guide a cavallo, che li avevano scortati sino all’incontro con i responsabili dell’opposizione.
La morte di Shadid, che da anni soffriva di asma e aveva sempre con sé i farmaci necessari, è avvenuta mentre con Hicks cercava di rientrare in Turchia. Il reporter ha cominciato a sentirsi male ieri, nel pomeriggio. In serata c’è stato l’attacco fatale, che potrebbe essere stato provocato dalla vicinanza dei cavalli delle guide. “Col respiro sempre più corto, Anthony si è appoggiato con entrambe le mani a un masso – ha raccontato Hicks -. Gli ero vicino. Gli ho chiesto se era tutto ok, ma è crollato. Non era cosciente. Il suo respiro si è fatto sempre più debole”. Un tentativo di rianimazione, tramite massaggio cardiaco, non è servito a nulla. Shadid è morto. Il suo corpo è stato portato da Hicks e dalle guide in Turchia.
Prima del New York Times, Shadid aveva lavorato al Washington Post, al Boston Globe e ad Associated Press. Americano di origine libanese, fluente in arabo, copriva da due decenni le vicende mediorientali. Aveva vinto il suo primo Pulitzer nel 2004, per gli articoli (per il Washington Post) sull’invasione americana dell’Iraq e sulla successiva travagliata, sanguinosa occupazione. Un secondo Pulitzer, nel 2010, era arrivato ancora per i suoi pezzi da Bagdad. Nel 2009, intanto, Shadid aveva lasciato il Washington Post per il New York Times, per il quale aveva seguito gli avvenimenti della “primavera araba”.
Più volte, nei mesi scorsi, il giornalista era stato al centro delle cronache internazionali. Lo scorso febbraio, durante le proteste al Cairo che condussero alla caduta di Mubarak, era stato ferito dalla polizia. Più drammatico quanto avvenuto alcuni mesi dopo in Libia. Shadid, insieme ad altri due giornalisti del “Times”, Stephen Farrell e Lynsey Addario, era stato rapito e picchiato dalle milizie pro-Gheddafi, che l’avevano tenuto prigioniero per più di una settimana.
Nel 2004, al momento del conferimento del Pulitzer, il comitato del premio aveva lodato “la sua straordinaria capacità di catturare, mettendo in pericolo se stesso, le voci e le emozioni degli iracheni durante l’occupazione del loro Paese, la cacciata dei leader e il sovvertimento di un modo di vita”. Nel 2010, la motivazione del premio citava “i pezzi sull’Iraq ricchi, scritti meravigliosamente, al momento della partenza degli Stati Uniti, con la gente e i leader iracheni lasciati a fare i conti con l’eredità della guerra e la necessità di costruire il futuro della nazione”.