Ritorno il contrabbando nel porto di Ravenna. Tra le nuove merci, il gasolio e i tabacchi, oltre a oro, armi e animali esotici. A denunciarlo Sos Impresa – Confesercenti, che riporta i dati emersi dalle indagini in corso, riguardanti la spartizione del territorio emiliano romagnolo tra le cosche mafiose insediatesi nel tessuto locale.
La ripresa del commercio illegale, apparentemente debellato nel 2005, trova nei tabacchi (TLE) la merce di punta. Fino ad arrivare a un giro di profitti che, solo per le sigarette, ha triplicato i suoi introiti, superando il miliardo di euro. Il tutto, transitando dal porto della cittadina romagnola, che secondo gli inquirenti è ormai un nodo nevralgico del traffico internazionale. Tanto che, sebbene i controlli effettuati riguardino solo il 3% della merce, i sequestri registrati dalla Guardia di Finanza hanno subito un’impennata: nel 2010 l’aumento è stato del 35%.
Il nuovo contrabbando riguarda immancabilmente anche uno dei beni più preziosi in questo momento sul mercato italiano: il carburante. A testimoniarlo, le diverse migliaia di litri sequestrate tra gennaio e febbraio dall’autorità portuale di Ravenna. Il costo notevolmente inferiore del gasolio utilizzato per i pescherecci, rispetto a quello venduto al settore dell’autotrazione, lo rende infatti “ una pericolosa fonte di possibile evasione d’imposta, se utilizzato diversamente dal suo reale scopo”, come si legge dal rapporto Sos Porto.
Proprio il 31 gennaio infatti, 65.000 litri di gasolio, pari a una evasione di diritti di circa 33.000 euro, è stata scoperta dalle Fiamme Gialle di Ravenna nel settore del trasporto dei prodotti energetici destinati al rifornimento di carburante per le piattaforme marine posizionate nell’alto Adriatico.
Il traffico non si esaurisce ai beni di consumo: in arrivo sulle banchine del ravennate anche una quantità sempre maggiore di prodotti tossici o nocivi da smaltire. Il 6 febbraio scorso, la GdF di Ravenna insieme alla Agenzia delle Dogane, ha sequestrato 85 compressori per frigoriferi usati (pari ad almeno 800 chili) contenenti CFC (cloroflurocarburo), ovvero un gas tossico altamente inquinante, che andrebbe invece smaltito seguendo procedure speciali (prodotti RAEE).
“Dati preoccupanti per le autorità giudiziarie – spiega Roberto Lucchi, responsabile di “SOS Impresa” Emilia Romagna – che accendono un faro sulla realtà della nostra regione”.
E come se non bastasse il rapporto di Sos Impresa enumera almeno 2000 imprenditori vittime in Emilia Romagna di pizzo, estorsioni e usura. Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma e riviera romagnola le zone calde della Gomorra del nord, il nomignolo che la ricca Regione si è conquistata negli ultimi anni. L’inquinamento dell’economia locale non si limita al solo contrabbando, ma si estende all’utilizzo di modalità mafiose come l’usura e la riscossione di tangenti: il cosiddetto “pizzo”.
“Un fenomeno che nato in primis come estorsione ai danni dei conterranei che dal sud venivano a lavorare al nord, e che tutt’ora è poco conosciuto. In questo silenzio – prosegue Lucchi – si rischia che dai fronti più significativi dell’imprenditoria – edilizia, autotrasporti e gioco d’azzardo – colpisca anche le persone comuni”.
L’usura costringe alla chiusura 50 aziende al giorno e solo nel 2010 ha bruciato circa 130 mila posti di lavoro. Un problema che riguarda i piccoli e medi commercianti emiliano romagnoli, (coinvolti sono circa 8.500, l’8,6% del totale) per un giro d’affari che sfiora un milione di euro, che spesso per resistere alle perdite dovute alla crisi vi fanno ricorso con sempre maggiore frequenza. “In un primo momento – spiega il responsabile di Confesercenti – l’usuraio appare come un benefattore, dimostrandosi in grado di risolvere il problema in maniera immediata. Poi però subentra la vergogna”.
Infatti, in apparente contrasto col fenomeno del racket, le relazioni semestrali della Direzione investigativa antimafia sulle estorsioni commesse nell’anno 2010, registrano un calo delle denunce del reato che non collima con il raddoppio delle operazioni anti-usura realizzate da magistratura e forze dell’ordine.
Rispetto all’anno precedente il calo delle denunce in Emilia Romagna è stato pari a circa il 19%. Dalle 356 del 2009, alle 206 del 2010, fino alle sole 113 segnalazioni nei primi sei mesi dell’ultimo anno. Un dato che non deve trarre in inganno, spiegano da Confesercenti, ma che anzi conferma un tasso d’omertà ben più alto rispetto alle zone storicamente coinvolte.
L’infiltrazione mafiosa non risparmia poi un settore importante per l’economia della regione rossa: l’agroalimentare. La filiera dei prodotti tipicamente emiliano romagnoli, come il parmigiano reggiano e l’aceto balsamico, si legge dal rapporto, sono particolarmente ambiti dai clan camorristici, specialmente dai Casalesi.
In tutto ciò, a dimostrazione dei dati pubblicati, gli immobili e le aziende confiscate in regione nell’ultimo anno superano il centinaio, 37 delle quali solo nella provincia di Bologna, 27 in quella di Forlì.
di Annalisa Dall’Oca e Ilaria Giupponi