La sensazione principale che provo, nel leggere le continue news sull’embargo all’Iran, è quella di uno straniamento anacronistico. Mi sembra di assistere a provvedimenti che avevano forse un senso trent’anni fa.

Chissà, magari è un automatismo delle cancellerie occidentali: vogliamo punire un Paese petrolifero, che si fa? Un bell’embargo. Come se fossimo ancora alle canzoni dei Bee Gees, ai paninari, e al mercato del compratore.
Il mercato del petrolio è da un pezzo diventato del venditore, vuoi per il calo delle riserve e per i costi di estrazione crescenti, vuoi per l’avvento di grossi competitors nell’acquisto della materia prima (Cina e India). Fatto sta che pensare di punire un produttore smettendo di comprare il suo petrolio è una sciocchezza che si ritorce solo contro chi la compie.

Un po’ come avere la polmonite, e non comprare gli antibiotici per far dispetto al farmacista.

E infatti l’Iran, che fornisce all’Europa -Italia in primis- quotidianamente 500 mila barili di petrolio, non ha fatto altro che annunciare che venderà da subito il suo greggio ai numerosi altri compratori che si affollano alla sua porta col cappello in mano. Eh si, non siamo proprio più nel 1980. Allarme poi sospeso: l’Iran ha convocato gli ambasciatori, ha detto di provare tanta pena per la nostra ondata di gelo, e quindi di non avere proprio il cuore di privarci dell’energia in questi giorni. Bella figura da imbecilli abbiamo fatto. Ma intanto la minaccia incombe ed è arrivata forte e chiara.

Ultima cosa. Qualcuno ha la tentazione di dare la colpa agli americani e alle loro fisse coi rogue states. Per carità, verissimo. Ma noi non siamo americani, e l’embargo lo abbiamo firmato noi con le nostre mani pur sapendo che saremmo stati gli unici a pagarne le conseguenze. Di chi è la colpa, allora?

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