Povero Festival. Nel momento esatto in cui viveva il suo apice, giovedì sera, riconosceva contemporaneamente la sua assoluta marginalità artistica. Si parla e straparla di Sanremo, in Italia, per coltivare l’illusione che sia un evento importante. E, parimenti, per non darsi il tempo di constatare che la musica migliore nostrana – salvo rari casi – non frequenta l’Ariston. Oggi come e forse più di ieri.

Sono bastati cinque minuti di Patti Smith per percepire nitidamente quanto grande sia l’abisso che separa i big reali dai presunti. Le icone autentiche dai divi de noantri. Quando “la signora Smith” – come l’ha accolta un provincialissimo Gianni Morandi – ha eseguito Impressioni di settembre con i Marlene Kuntz, è stato come passare da un filmaccio di Bombolo a un capolavoro di Kubrick. Dal niente al tutto. Una montagna russa che, più prima che poi, avrebbe sadicamente previsto una nuova discesa. Nello specifico, il monologo sulla “foca” di Rocco Papaleo: un artista bravo, e sincero, ma con testi a tratti esilissimi.

È vero che di Patti Smith ne esiste solo una. È vero che di alcune guest star straniere se ne poteva fare a meno (Shaggy, per dire). Ed è doveroso sottolineare come l’apice della rassegna, sancito dal premio della sala stampa, sia stato ulteriormente riverberato dalla band di Cristiano Godano, che ha da anni in repertorio il classico della Pfm e che ha convinto molto più nella cover che nell’inedito. Sanremo è però sembrata, nel paragone impietoso, sottoprovincia dell’Impero. Comparsa di seconda fila che, per cinque giorni e troppe ore di palinsesto, si immagina grossolanamente étoile.

L’idea dei duetti internazionali, come chiave di volta per celebrare i successi italiani, è stata coraggiosa. E la resa buona. Ma tutto questo ha portato con sé la constatazione che a essere nuda non è Belén, bensì il Re. Peraltro dalla corona posticcia. Lo ha dimostrato anche Brian May, storico chitarrista e fondatore dei Queen: invecchiato, manierista e malinconicamente tenero nella sua china discendente, ma comunque superlativo. Ancor più se rapportato al contesto. Irene Fornaciari, sua compagna per intercessione del padre, a fine esibizione piangeva, forse per l’emozione o forse perché conscia di non avere meritato tale onore.

Giovedì ci sono state devastazioni e incanti. Gigi D’Alessio si è avvicinato a Mia Martini con il rispetto che aveva Berlusconi per la Costituzione (naturalmente commossa, invece, Loredana Bertè). Dolcenera, alle prese con Vita spericolata, sembrava l’idea che i puffi hanno di Morgan: maudit all’acqua di rose, la mascella al vento e un che di sguaiato perenne. L’evergreen di Vasco ne è uscito devastato. E il Professor Green, sedicente rapper con la timbrica di Topo Gigio, ha diligentemente infierito sulle macerie. Molto meglio Samuele Bersani con Goran Bregovic, o Josè Feliciano con Arisa.

Due sere fa è stato per tutti evidente ciò che la musica può essere. E che a Sanremo, quasi mai, è. Reduci da sfiancanti dibattiti su qualunquisti ipotetici e farfalle pubiche, commissariamenti caricaturali e soliti idioti (di nome e di fatto), la realtà ha fatto irruzione. Dicendo che la posticcia grandeur dell’Ariston può ambire alla bellezza solo se appalta ad altri il proscenio. A quelli bravi, bravi sul serio, che magari i cerimonieri neanche sanno pronunciare.

Gianni Morandi, tra una domanda debole e una televendita improbabile, ha sbagliato quasi tutto: “Ailaizz” (highlights), “Uebbe” (web), “Brusprinti” (Bruce Springsteen), “Bikostenai” (Because The Night), “Neverg… Nevergheng … Neverd …” (non era difficile: “neverending”). Ha ciccato perfino il nome di una diva con cui si è esibito, “Uitni Iustol” (Whitney Houston), che ha pigramente “omaggiato” all’una di notte passata. Sembrava quasi che, fraintendendone i fonemi, intendesse esorcizzarne il potere esterofilo. Non c’è riuscito, il bluff è ormai chiaro: Sanremo è bello soltanto quando non somiglia a Sanremo.

Il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2012

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