Con le temperature particolarmente basse si è tornati a parlare di una parte di popolazione altrimenti invisibile: i senza dimora. Gli interventi sono quasi sempre di tipo emergenziale e assistenziale, spesso affidandosi a volontari. Certo, è importante fornire servizi di base, ma il rischio è che portino alla cronicizzazione dello stato di homeless. Sarebbe invece necessario ricorrere a politiche di riduzione e prevenzione del fenomeno. Da valutare in modo rigoroso, così da incanalare le risorse verso gli interventi che effettivamente producono risultati positivi.
di Michela Braga* e Lucia Corno** 17.02.2012, lavoce.info
La colonnina di mercurio molto al di sotto dello zero delle scorse settimane ha riacceso i riflettori su quella parte della popolazione che più di ogni altra risente delle condizioni climatiche. Li si può chiamare senza tetto, homeless, senza fissa dimora, clochard, esclusi, barboni. Si può porre l’accento sulla mancanza di una casa nel senso fisico del termine, oppure sulla mancanza di un ambiente di vita idoneo per poter sviluppare delle relazioni affettive. Si può utilizzare lo stereotipo romantico, ma poco realistico, di un individuo che per scelta di vita abbandona ogni convenzione sociale e si pone volontariamente ai margini; oppure si può pensare a un individuo vittima del sistema sociale che ai margini viene posto. Sono molti i modi con cui vengono indicati coloro i quali vivono in strada e non hanno una dimora propria ma, al di là delle disquisizioni semantiche, si tratta di veri e propri “invisibili”.
Homeless in due città
Invisibili per i comuni cittadini. Invisibili per i politici che non li identificano come potenziali elettori, in quanto molto spesso non posseggono una legale residenza, e tendono quindi a non includerli nelle priorità della propria agenda politica e a preoccuparsene solo nei periodi in cui “l’emergenza freddo” li porta alla ribalta della cronaca. Invisibili anche per le statistiche ufficiali. Tutte rilevano infatti la numerosità degli individui che vivono in condizioni di povertà, sia assoluta sia relativa, ma non considerano coloro che non hanno una dimora fissa e vivono in una condizione di povertà estrema ed esclusione sociale. Raccogliere dati censuari o campionari su queste persone è estremamente difficile. Trattandosi di una popolazione particolare, spesso nascosta, difficile da approcciare e in continuo movimento all’interno di un dato territorio, il monitoraggio nel corso del tempo è molto complesso. A questo si deve aggiungere il fatto che, nella quasi totalità delle indagini, la base di campionamento comunemente utilizzata sono le abitazioni. Per questi motivi gli homeless vengono sistematicamente esclusi dalle statistiche ufficiali sulla povertà e sulla diseguaglianza sociale.
Nonostante le criticità, per la prima volta in Europa negli ultimi anni sono state fatte due indagini approfondite sui senza dimora, a Milano e a Torino. In entrambe le occasioni, per il suo alto livello di attendibilità, è stato utilizzato il cosiddetto S-night approach (Street/Shelter approach). Oltre 300 enumeratori nell’arco di una sola notte, in entrambe le città, hanno effettuato simultaneamente il conteggio di tutti i senza dimora sull’intero territorio cittadino e hanno per la prima volta “scattato una fotografia” di questa popolazione. A Milano gli homeless censiti il 14 gennaio 2008 sono stati 1.560 (408 in strada e 1.152 nei dormitori) mentre a Torino il 18 gennaio 2010 sono stati 765 (288 in strada e 477 nei dormitori). (1)
L’incidenza del fenomeno rispetto alla popolazione delle due città risulta essere pari allo 0,12 per cento a Milano e allo 0,084 per cento a Torino. In entrambe le città la distribuzione spaziale è omogenea all’interno del territorio urbano e solo in alcune zone centrali si segnala una maggiore concentrazione. Sulla base del censimento, la notte seguente, si è proceduto alla raccolta di circa 1.500 questionari su un campione casuale di individui.
Proviamo a utilizzare i dati raccolti per capire se emergono dei tratti distintivi della popolazione e se si riscontrano delle differenze nell’individuo tipo tra il 2008 e il 2010, anni che sono stati cruciali per la congiuntura economica negativa conseguente alla crisi.
Mentre a Milano le donne rappresentano il 10 per cento della popolazione in strada e il 16 per cento nei dormitori, a Torino la loro incidenza è maggiore (20 per cento) ma concentrata essenzialmente nei dormitori (95 per cento). La popolazione nel 2010 a Torino è mediamente più giovane (40 anni) rispetto alla popolazione di Milano nel 2008 (51 anni in strada e 43 nei dormitori). In entrambe le rilevazioni circa il 70 per cento della popolazione è costituito da immigrati.
In entrambe le città è minore il turn-over per chi dorme in strada, ma il fenomeno sembra relativamente più recente a Torino. A Torino in media gli individui hanno perso la casa da 4 anni (4.7 anni per gli intervistati in strada e 3.7 per i residenti nei dormitori) mentre a Milano in media gli individui che dormono in strada hanno perso la casa da 7 anni e coloro i quali dormono nei dormitori da 4 anni. La strada rappresentare la forma più estrema di homelessness cui è associata una maggiore difficoltà di reinserimento nel tessuto sociale. A Milano sembra esserci un maggior livello di cronicizzazione nel tempo della condizione di senza dimora.
Sebbene la partecipazione al mercato del lavoro sia più alta rispetto a quella che si riscontra nella popolazione generale, per effetto soprattutto della quota maggiore di individui che dichiara di cercare un lavoro, il tasso di occupazione alla data dell’intervista si attesta tra il 10 e il 15 per cento ed è minore per gli homeless che vivono in strada. In entrambe le città la maggioranza degli occupati non possiede alcun contratto di lavoro e una quota significativa ha contratti a termine. Il salario mensile di chi possiede una qualche forma di lavoro è di 395 euro a Torino e 611 euro a Milano, in entrambi i casi evidentemente insufficiente a consentire l’uscita dalla condizione di senza dimora. Emerge inoltre una correlazione negativa tra probabilità di essere occupato e in cerca di un’occupazione e il ricevere sussidi pubblici. La stessa correlazione negativa si ha quando si considerano gli aiuti monetari da parenti o amici e gli aiuti in kind (cibo, vestiti, farmaci).
L’esperienza degli Stati Uniti
Gli interventi di welfare su questa popolazione possono essere di tre tipi: 1. interventi di emergenza, volti ad alleviare/attenuare il fenomeno; 2. interventi di supporto e housing, volti a favorire l’inclusione sociale; 3. interventi di prevenzione. Le prime due azioni sono dirette alla popolazione che già vive il fenomeno, mentre la terza ha come target la popolazione “a rischio”. Gli interventi di emergenza sono tipicamente di breve periodo e temporanei, quelli di inclusione e di prevenzione sono duraturi e producono effetti di lungo periodo.
La letteratura che valuta l’efficacia di queste politiche è per lo più circoscritta agli Stati Uniti, ma suggerisce che lemisure preventive siano da preferire in un’ottica di efficienza economica. Agendo sul tasso di entrata nellahomelessness, riducono infatti il numero di senza dimora e consentono di abbassare i costi monetari e sociali. In più, si ha un’ulteriore diminuzione dei costi per via indiretta poiché la minor congestione dei servizi esistenti consente di attuare strategie migliori per accompagnare l’abbandono dalla condizione di senza dimora così da avere percorsi di uscita più rapidi. Viceversa, attuando misure di intervento ex-post si perde l’effetto indiretto derivante dalle esternalità positive prodotte dal primo canale.
Le politiche preventive, le cosiddette close the front door o entry policies, sono molteplici e includono l’assistenza agli individui vittime di sfratti, la fornitura di alloggi a canoni differenziati in base al reddito, il sostegno con percorsi mirati degli individui in alcuni snodi di vulnerabilità della vita (come la perdita del lavoro, un divorzio, la conclusione del periodo detentivo, solo per citarne alcuni). Il fatto che la homelessness abbia alla base una molteplicità di concause rende difficile la definizione del mix di interventi di prevenzione adeguati da offrire.
I piani anti-freddo
In Italia gli interventi sui senza dimora sono nella quasi totalità dei casi di tipo emergenziale e assistenziale. Le città attuano i cosiddetti “piani anti freddo” che consistono nell’incrementare l’offerta di posti letto durante i periodi dell’anno in cui il clima è più rigido e nel fornire coperte, cibo e bevande calde. La maggior parte delle istituzioni ricorre all’aiuto di volontari e del terzo settore per rispondere all’emergenza. La figura chiave del reinserimento diventano gli assistenti sociali (pochi) che studiano programmi ad personam definendo un percorso individuale.
Due aspetti accomunano queste politiche: (i) sono tutte assistenziali; (ii) non c’è evidenza empirica dell’efficacia degli interventi sul reinserimento degli homeless nella società. Certo, è importante fornire servizi di base, ma il rischio è che portino alla cronicizzazione dello stato per la maggior parte della popolazione. Poca attenzione viene invece posta a interventi che possano avere un effetto significativo medio su tutta la popolazione. Approcci innovativi per ridurre o prevenire la homelessness sono disperatamente necessari. Le politiche devono essere valutate in modo rigoroso, ad esempio con l’uso degli esperimenti randomizzati, così da incanalare le risorse verso quegli interventi che effettivamente producono risultati positivi drenandole da tutti quegli interventi inefficaci. Questo ridurrebbe notevolmente i costi affrontati ogni anno dai comuni italiani per “l’emergenza freddo”.
(1) A Milano è stato effettuato simultaneamente anche il conteggio degli individui residenti in aree dismesse, insediamenti abusivi e baraccopoli. Tale popolazione è risultata essere di 2.300 individui adulti.
*Si è laureata in Economia e Commercio presso l’Università Cattolica di Milano, nell’aprile 2003. Nel 2004 ha ottenuto il Master in Economics presso l’Università Bocconi dove ha poi proseguito la sua formazione con il Ph.D. in Economics. Si è specializzata in Economia del Lavoro. I suoi principali interessi di ricerca sono l’economia del lavoro e l’economia delle migrazioni.
**Si è laureata in Economia aziendale presso l’Università Bocconi nel 2003 e ha poi conseguito un master in Cooperazione allo Sviluppo all’Università di Pavia. occupa di economia dello sviluppo, con particolare riferimento al ruolo della medicina informale e alle determinanti dell’HIV/AIDS in Africa. E’ attualmente Post-Doctoral Researcher all’Institute for International Economic Studies (IIES) all’ Università di Stoccolma.