Beata quell’Italia che non ha bisogno di Sanremo si potrebbe dire parafrasando Brecht. Ma chissà se nascerà mai, quell’Italia. Un paese che non ha bisogno di vedere i suoi atavici vizi e difetti rappresentati in una rassegna di canzonette per potersi alleggerire la coscienza e poter dire, in solitaria o negli innumerevoli gruppi d’ascolto motivatamente dediti allo spennacchiamento: noi non siamo così. Invece quel paese non c’è ancora e abbiamo bisogno di Sanremo, della sua pedante falsità, delle suo congenito doppiogiochismo, dei suoi personaggi servi di due o più padroni, alla bisogna, per sentirci più leggeri.
L’Italia che non emette scontrini se non quando ha la Finanza che bussa alla porta ma che al contempo ulula contro i politici ladri non è forse la stessa di un Celentano qualunque che attacca la stampa “perché ha travisato le mie parole”, che invoca (al condizionale però) la chiusura di due giornali (colpevolmente ignaro del fatto che proprio Famiglia cristiana è invisa a larghe fette delle gerarchie vaticane) e da’ del deficiente a un critico utilizzando un codice verbale perfettamente identico a quello di B., di suoi sgherri e dei suoi scendiletto?
L’Italia ha bisogno della sanremasca rappresentazione di sé per poter negare di essere, quando va bene, sogghignantemente ironica nei confronti del gay e quando va male pesantemente omofoba. Ha bisogno di serate così per poter dire: noi siamo migliori. Ma non è vero purtroppo. Concluso il piu’ sconclusionato Festival degli ultimi anni, assurto al ruolo (non certo il peggiore) di carne da Twitter, resta l’Italia di sempre che una qualunque cura improntata da draconiane misure finanziarie è ancora ben lungi dal guarire. Come ci ha ricordato Patty Smith nell’unico momento davvero indimenticabile del Festival, quando ha eseguito “Impressioni di settembre”‘: il giorno, come sempre, sarà.