E’ arrivata nel giorno in cui il sistema carcerario italiano ha contato la sua ventiquattresima morte dall’inizio dell’anno, il decimo suicidio in neppure due mesi, quello del ventenne rinchiuso a San Vittore. E’ la sentenza in cui la Corte di Cassazione fissa un principio destinato a suscitare una levata di scudi, quello per cui, in caso di suicidio del detenuto in cella, a risponderne può essere l’agente di polizia penitenziaria. La Suprema Corte, infatti, ha confermato la condanna per omicidio colposo a una agente che non si era accorta del suicidio di una reclusa, avvenuto durante il suo turno di sorveglianza a vista.

I fatti risalgono al 24 novembre del 2004. Marina Kniazeva, quarantenne di nazionalità russa, era detenuta nella sezione femminile del carcere romano di Rebibbia. Si suicidò impiccandosi su una sponda del letto che dallo spioncino non era visibile. Non era imprevedibile, però, che lo fa facesse. Anzi. La disposizione della sorveglianza a vista era stata impartita proprio in previsione di iniziative estemporanee e pericolose della detenuta e per evitare comportamenti autolesionistici. Per questo era stato stabilito che il servizio di vigilanza venisse svolto in modo continuativo. Invece l’agente, Cosmina R., per sua stessa ammissione, da quella cella, benché l’unica occupata in quel reparto, si era allontanata.

L’agente era già stata condannata per omicidio colposo dalla Corte d’Appello di Roma, il 9 marzo dello scorso anno. Ora, la quarta sezione penale della Cassazione ha confermato quel verdetto, ritenendo infondato e respingendo il suo ricorso. La motivazione è chiara: “L’omissione della condotta prescritta a Cosmina R. ha precluso a monte il tempestivo avvistamento della complessa manovra suicidiaria e con essa il conseguente dovuto intervento per scongiurare il fatale esito”. Insomma, un’omissione di diligenza che per i giudici di piazza Cavour si è tramutata in una colpa in vigilando.

Ma c’è chi non ci sta. La creazione di questo precedente, infatti, si incunea in un contesto che scarica il peso di tutto il sistema carcerario italiano sull’altro anello debole della catena: i baschi blu. La loro sottodotazione di personale e di strumentazione è estrema. Un dato per tutti. In teoria, sulla pianta organica, gli agenti all’interno degli istituti di pena dovrebbero essere 45mila. In pratica, nei corridoi e nei cortili, se ne contano invece 38mila. 7mila in meno. Solo nelle case circondariali del Lazio, secondo i dati della Uil, mancano all’appello 971 unità, a cui vanno aggiunte le carenze di 41 educatori, 65 assistenti sociali, 43 contabili e 40 tecnici. Vuoti che complicano la gestione quotidiana all’interno delle sezioni e schiacciano tutta la pressione sul personale in servizio. Tanto da avere, per i sindacati, un diretto rapporto con l’aumento dei suicidi anche tra le forze di polizia penitenziaria. Ottantacinque in dieci anni. L’ultimo proprio a Rebibbia. Un destino in comune con quello dei loro sorvegliati: sessantasei si sono tolti la vita solo durante il 2011.

Per questo motivo, la “sentenza della Cassazione suscita amarezza – ha commentato il segretario del Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Donato Capece – E’ chiaro che in una situazione di sovraffollamento come quella attuale, quando ci sono casi di vigilanza a vista prevista dagli psichiatri, ciò significa impegnare un agente 24 ore su 24 al controllo di un singolo detenuto, e questo crea situazioni spesso difficili da gestire. Bisogna anche mettersi nei panni di chi deve garantire un servizio ma non ha uomini per farlo”.

Anche questo tema sarà al centro dell’incontro che nelle prossime ore si terrà nella Sala Verde del Palazzo di Giustizia tra il ministro Paola Severino e le organizzazioni sindacali. E c’è chi alza il tiro. “In quella sede chiederemo di procedere con l’apertura di centri di sostegno psicologico per noi agenti – dice Giuseppe Moretti, segretario della Federazione nazionale polizia penitenziaria della Ugl – altrimenti anche noi, come i reclusi, siamo pronti a ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo per far valere le nostre istanze. Questa sentenza, ora, non fa che esasperare la tensione che c’è per una situazione organizzativa fortemente compromessa. Siamo costretti a svolgere il servizio in condizioni assurde. Specie durante i turni pomeridiani, serali e notturni, quando accade, molto spesso, addirittura che una sola persona debba controllare due sezioni collocate su due piani diversi. Senza neppure poter contare sugli ausili di ordine elettronico, che servirebbero, eccome, perché la sorveglianza a vista, in queste condizioni, diventa troppo complessa”.

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