Politica

Redditi dei ministri, <br>è vera gloria?

Perché da due giorni stiamo discutendo di questi redditi? Perché i siti vanno in tilt? Non solo per “guardonismo” fiscale, ma per un dato di fatto oggettivo. Le dichiarazioni dei ministri hanno certificato un dato intuitivo: siamo passati dal governo di Creso al governo dei Paperoni; dall’autocrazia dell’imprenditore fai-da-te al governo illuminato degli ottimati.

Prima domanda: c’è per forza qualcosa di male, in questo? Assolutamente no: siamo contenti (beata lei!) per i 7 milioni di Paola Severino e anche per il mezzo milione di euro di Filippo Patroni Griffi (che però la casa se la poteva comprare senza sconti di Stato, no?).

Non amo gli invasati del pauperismo, le grida di chi considera la ricchezza un crimine: i soldi guadagnati con onestà sono sempre legittimi. Il primo problema, però, è che sono stati gli stessi ministri ad accettare con difficoltà questa idea, dando vita a una inedita manifestazione di glasnost al rallentatore: mi butto, non mi butto … (e qualcuno è arrivato fuoritempo massimo).

Perché tanto pudore? Intanto perché c’era una coda di paglia (loro, non nostra). L’immagine dei “Paperoni” è meno accattivante di quella dei “francescani sobri”, dei “professori austeri”, del trolley e del loden. Si può essere anche plutocrati: il problema è quel che si fa, e nell’interesse di chi. In America i redditi di chi governa sono noti da sempre, non perché pensano che tu evada, ma perché è decisivo sapere chi ti finanzia (e come ti condiziona).

Poi ci sono pensieri maliziosi, ma inevitabili: la prossima volta che ci faranno una tirata sui titoli pubblici da comprare, ci ricorderemo – magari – che con 11 milioni nel salvadanaio, il nostro rigorosissimo premier non ha investito un centesimo in Bot. E alla prossima tassa occulta sulla povertà (dopo il blocco di indicizzazione per retribuzioni e pensioni o taglio dei trasporti regionali) ci ricorderemo di Mario Ciaccia, il sottosegretario in Porsche con reddito da un 1,6 milioni.

La ricchezza non è un peccato, ma una responsabilità, sì. Ed è uno status che ci induce a uno sguardo severo, quando qualcuno di questi ottimati parla con la lingua di Maria Antonietta. La sovrana che alla constatazione “Il popolo ha fame!” replicava serafica: “Allora dategli brioches!”.

L’ultimo paradosso: è ragionevole che un grand commis de l’Etat che serve il Senato (come Antonio Malaschini), guadagni tre volte il presidente del Senato? Credo di no. Queste riflessioni se ne portano dietro un’altra: se la politica diventa il gioco dei ricchi che possono permettersi di rinunciare a emolumenti principeschi, siamo sicuri che la democrazia ci guadagni? Di fronte a buste paga (spesso pubbliche) di milioni di euro l’anticasta va ripensata.

Preferisco difendere l’idea che un politico (se lavora) sia pagato bene, piuttosto che cedere alla demagogia del “tagliamo tutti i privilegi” per spianare la strada solo ai privilegiati. Si può anche essere ricchi e disinteressati (e molti di questi ministri lo sono): ma le persone hanno diritto a interrogarsi su chi chiede sacrifici senza preoccuparsi di quel che costano a chi li deve fare: Paperone diventa antipatico quando chiede prestiti a Paperino.

Il Fatto Quotidiano, 23 febbraio 2012