Il ritorno di Bruce Springsteen, a tre anni dallo speranzoso e leggero Working On A Dream, è un disco intriso degli antichi sapori dell’America più rurale, radicata nel folk, che si apre fino ad abbracciare il gospel, contaminando tutto con uno spirito grezzo e una forte attitudine punk rock, per certi versi non dissimile da quella che animava le ultime prove discografiche di Joe Strummer, il compianto leader dei Clash, con i suoi Mescaleros. Wrecking Ball parte con l’anthem We Take Care of Our Own, scelto come primo singolo, in cui Bruce pone subito la questione centrale del disco, quel prendersi cura di noi stessi come unica risposta a questi tempi difficili in cui ogni punto di riferimento sembra perso (“Avevamo bisogno di aiuto ma la cavalleria è rimasta a casa / Non c’è nessuno che sente la tromba suonare”).
Pezzi come Easy Money, la contagiosa Shackled And Drawn e la bellissima Death To My Hometown, riuscito mix tra Pogues e Dropkick Murphys, sono canzoni ruvide, taglienti, che non risparmiano nessuno. Death To My Hometown è l’efficace metafora di questa non-guerra, dove la “hometown” di springsteeniana memoria è devastata dalla crisi in un immaginario scenario post-bellico dove non ci sono né bombe né eserciti e le macerie sono più umane che materiali (“Hanno distrutto le fabbriche delle nostre famiglie e si sono presi le nostre case / Hanno lasciato i nostri corpi a giacere nei campi, con gli avvoltoi che beccavano le nostre ossa”) e i cui responsabili sono presto individuati e condannati (“Cantiamolo forte e bene / Spediamo i baroni del furto direttamente all’inferno / Gli avidi ladri che sono venuti a mangiarsi la carne di tutto quello che hanno trovato / I cui crimini sono impuniti ora / Che camminano per le strade da uomini liberi ora”).
Se Working On A Dream era il disco della speranza, del sogno di una nuova America incarnata da Obama, questo è il brusco risveglio che apre gli occhi direttamente sull’incubo della realtà, della crisi economica che ha corroso le fondamenta della nazione, con Springsteen che punta il dito contro chi l’ha alimentata, in prima fila gli avidi “gatti grassi” della finanza (Easy Money) e chi, in generale, ha mandato in frantumi il caro e vecchio American Dream, il sogno del quale tenta di parlarci ormai da quarant’anni.
C’è anche un altro lato di questo disco, il più intenso e meno battagliero, dominato da splendide ed evocative ballate come da tempo non se ne sentivano su un disco del Boss: Jake Of All Trades, che sembra uscita dall’ultimo album di Tom Waits, la toccante This Depression (con Tom Morello alla chitarra) e You’ve Got It che potrebbe essere una nuova Fire. Proprio da quest’ultima canzone parte il lato più ottimistico di questo Wrecking Ball dominato da una Rocky Ground che può ricordare Streets Of Philadelphia, dove il linguaggio dell’hip hop si fonde con quello del gospel in modo naturale (in fondo sono entrambi musiche del popolo, della gente) e dalla già conosciuta, e memorabile, Land Of Hope And Dreams (già presentata live diverse volte nell’ultimo decennio e qui riarrangiata, dove compare anche il compianto Clarence Clemons al sax), senza dimenticare la epica title track, giustamente posta a metà dell’album, dove appare chiaro, come dichiarato anche dallo stesso Springsteen in recenti interviste, che bisogna “demolire per ricostruire”.
In coda al disco, We Are Alive, dall’incedere Morriconiano, canzone di speranza e redenzione che chiude epicamente questo album, con una sezione di fiati che riecheggia “Ring of Fire” di Johnny Cash. (“Siamo vivi / Anche se i nostri corpi giacciono soli qui nel buio / I nostri spiriti si sollevano per portare il fuoco e accendere la fiamma / Per stare vicini con i nostri corpi e i nostri cuori“).
Uno Springsteen così oscuro, arrabbiato e a stretto contatto con la realtà non si sentiva da anni. Wrecking Ball ha forti punti in comune con Nebraska, soprattutto a livello di testi. Giova anche il cambio di producer: dall’ultimo Brendan O’Brien, che in Working On A Dream giocava un po’ troppo a fare Phil Spector, a questo Ron Aniello, che infonde a Wrecking Ball un sound secco e senza fronzoli che pone, giustamente, la voce di Bruce Springsteen in primo piano e che fa ricordare, in svariati momenti, We Shall Overcome inciso con la Seeger Sessions Band qualche anno fa.
Il Boss è tornato e, come solo lui riesce a fare, crea un magnifico affresco che racchiude i momenti peggiori di questi anni insieme a possibili risposte per superare questa crisi, che non è soltanto economica ma in primo luogo spirituale e di valori. Da questa depressione, non solo dell’individuo ma della nostra società, si può uscire solo in un modo: amando i nostri cari, le persone che conosciamo, creando un tessuto sociale (simile a quello che ha animato Occupy Wall Street) che riesca nell’unità di intenti a farci uscire da questo momento così buio. Grazie Bruce per essere con noi anche in questi tempi difficili.