Le proteste in Afghanistan nate dalla notizia del ritrovamento di alcune copie del corano bruciate con un cumulo di immondizia dentro la base americana di Bagram, a Nord di Kabul, non si fermano. E anzi, nel tradizionale venerdì di preghiera, giorno sacro per i musulmani, si sono nutrite di nuovi incidenti e di nuove vittime. Quel che sembrava due giorni fa soltanto una fiammata di rabbia prende adesso il colore di una mini rivolta che ha trasferito la guerra dalla prima linea fin dentro la capitale o in altre città importanti come Herat, dove gli italiani hanno il comando della zona Ovest del Paese.

Oggi sono morte dodici persone, sette delle quali proprio a Herat, dove una folla ha cercato di assaltare il consolato statunitense. A Kabul, invece, centinaia di persone hanno marciato verso il palazzo presidenziale di Hamid Karzai, scandendo slogan contro il governo e contro gli Stati Uniti. La polizia afgana ha sparato in aria per disperdere la folla e secondo il portavoce del governo Sediq Sediqqi, tre civili e due poliziotti sono rimasti feriti. Manifestazioni meno veementi nei modi ma non meno cariche di rabbia ci sono state anche a Ghazni, Nangarhar, Paktia, Kunar, Bamyian e Khost. Il governo afgano cerca di placare l’opinione pubblica chiedendo che i responsabili della dissacrazione del Corano siano processati pubblicamente e il generale John Allen, comandante delle truppe Nato, ha cercato di rassicurare gli afgani spiegando che la Nato e il governo «lavorano assieme per evitare che incidenti simili si ripetano».

Una commissione nominata dal governo Karzai ha descritto l’episodio come «vergognoso» ma ha anche lanciato un appello alla “calma e all’autocontrollo, vista la particolare situazione del paese”. Per buona misura di sicurezza, però, a Kabul la polizia antisommossa presidia gli snodi principali della città e il personale dell’ambasciata statunitense, in stato di massima allerta, ha ricevuto istruzione di limitare al massimo gli spostamenti.

Forse nessuno prevedeva che, questa volta, le cose non sarebbero andate come in passato quando, a episodi del genere, corrispondeva qualche manifestazione di un centinaio di studenti o qualche fiammata di rabbia che, praticamente solo una volta (accadde nell’area settentrionale di Mazar-i-sharif nell’aprile 2011) era diventata una vera e propria battaglia urbana con morti e feriti (allora si disse pilotata dai talebani). A poco sono dunque servite le scuse degli esponenti sia americani sia Nato in Afghanistan, la presa di distanze del Pentagono o il messaggio di scuse scritto direttamente da Barack Obama al presidente afgano Hamid Karzai. E a poco è servito aver reso nota l’inchiesta interna o il fatto che i libri sacri bruciati siano stati il frutto di una grave sciatteria ancor prima che il gesto inconsulto frutto della stupidità di soldati statunitensi o mercenari d’appoggio (contractor) in forza alla base americana più importante nel Paese.

La vicenda ha del resto illustri precedenti, l’ultimo dei quali accaduto non molte settimane fa quando un video postato anche su Youtube, aveva mostrato dei marine americani mentre orinavano ridacchiando sul corpo senza vita di alcuni “insorgenti”, come vengono chiamati i guerriglieri talebani. Ma per un musulmano, insultare il Corano, è assai peggio che prendersi gioco della vita di un combattente ucciso. Allora infatti le reazioni furono contenute e, per parte talebana, si limitarono a un comunicato nel quale la guerriglia in turbante, confermando il suo giudizio sulle truppe di occupazione e le loro efferatezze, aveva però certificato che l’episodio non avrebbe ostacolato i negoziati in corso (tra americani, tedeschi e talebani) che, com’è ormai noto, si sono svolti sotto traccia per oltre un anno per arrivare, se tutto filerà liscio, all’apertura di un ufficio politico dei talebani a Doha, in Qatar.

Quando il sacerdote americano di una chiesa protestante aveva avuto la brillante idea di dare alle fiamme il libro del profeta, a parte il già citato caso di Mazar-i sharif dove un corteo dopo la preghiera si era trasformato nell’assalto di un’avanguardia a un compound dell’Onu, altre reazioni di “massa” alle offese occidentali si registrarono a Kabul e in altre città del Paese. Ma la cosa si limitò a qualche centinaio di studenti che, a Kabul e in altre realtà urbane minori, inscenarono proteste esauritesi senza gravi incidenti e qualche bandiera stelle e strisce data alle fiamme senza provocare l’intervento armato delle forze di sicurezza governative.

Stavolta, l’ampiezza delle proteste segnala anche una crescente e diffusa frustrazione: atti come quello di Bagram evidenziano che, per una parte almeno dei militari stranieri, dieci anni non sono bastati per capire il paese in cui si trovano. E questo spiega se non tutti, certamente una buona fetta dei fallimenti politici conseguenti.

Ma la rabbia contro le truppe a stelle e strisce ha superato i confini afgani. Nella capitale della Malaysia Kuala Lumpur, dopo la preghiera del venerdì, circa 200 persone hanno marciat fino all’ambasciata di Washington. “Morte all’America”, è stato uno degli slogan scanditi dai dimostranti, tutti militanti del partito Pan-Malaysia Islamic Party. “Rispetto per il Corano”, si leggeva invece su alcuni striscioni. I manifestanti hanno anche consegnato una lettera di protesta a un rappresentante della sede diplomatica. Nasruddin Hassan Tantawi, leader del movimento giovanile del partito islamico, ha spiegato che “le scuse da sole non bastano perché quanto accaduto ha molti precedenti. Non solo hanno ucciso i nostri fratelli musulmani – ha detto – ma hanno anche insultato la nostra religione. E questo non può essere tollerato”.

di Emanuele Giordana

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