L'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino

Ci sono delle evidenti incompatibilità tra le dichiarazioni che Nicola Mancino, Claudio Martelli e Vincenzo Scotti hanno reso in merito a ciò che accadde nel biennio 92-93, il periodo in cui si sarebbe sviluppata la cosiddetta trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra. All’epoca dei fatti tutti e tre gli uomini politici erano ministri della Repubblica. Adesso qualcuno rischia un’incriminazione per falsa testimonianza.

Le contraddizioni sono emerse durante la deposizione dell’ex Ministro dell’Interno Nicola Mancino, ascoltato come teste durante l’ultima udienza del processo che a Palermo vede imputati gli alti ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento alla mafia per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995.

La discrepanza più evidente tra le dichiarazioni degli esponenti della prima Repubblica è emersa in merito all’avvicendamento tra Scotti e lo stesso Mancino alla guida del Ministero dell’Interno il 28 giugno del 1992. Scotti aveva dichiarato come fosse all’epoca intenzionato a rimanere al Viminale anche nel nuovo governo Amato. Erano però sorti dei problemi riguardo alla sua riconferma. Problemi che avevano portato al suo “spostamento” agli Esteri e alla conseguente nomina di Mancino agl’Interni. “Sono andato a letto credendo di essere nominato il giorno dopo ministro dell’Interno e invece mi sono svegliato Ministro degli esteri” aveva raccontato Scotti.

Per Mancino invece le cose andarono in modo completamente diverso: “Chiamai Scotti per convincerlo ad accettare il ruolo di Ministro dell’Interno” ha detto in aula l’ex presidente del Senato che ha aggiunto come fosse stato il suo stesso predecessore “a non volere più ricoprire l’incarico di ministro, dato che nella Democrazia cristiana avevamo deciso che chi entrava nel governo doveva dimettersi da deputato. Scotti invece non voleva rinunciare all’immunità parlamentare che per lui era importante”.

VIDEO: MANCINO “SVELA” IN AULA LE MALVERSAZIONI DEI SERVIZI SEGRETI

Video di Silvia Bellotti

A tal proposito lo stesso Mancino ha fatto cenno a un’indagine che avrebbe coinvolto Scotti sulla gestione dei fondi riservati del Sisde. Irregolarità sulle quali lo stesso Mancino, incalzato sul punto dal pm Antonio Ingroia, ha dimostrato di essere al corrente ma di non averle denunciate pubblicamente per “non far scoppiare uno scandalo all’interno dei Servizi segreti”.

A proposito di Scotti, Mancino ha anche dichiarato di ricordare l’allarme lanciato dal suo predecessore in merito a un piano di destabilizzazione ideato da Cosa Nostra contro esponenti delle istituzioni. Allarme lanciato da Scotti già nel marzo del 1992, e quindi mesi prima dalle stragi di Capaci e via d’Amelio. L’allora capo della polizia Vincenzo Parisi aveva segnalato in una circolare l’esistenza di minacce di morte per il presidente Giulio Andreotti e i ministri Salvo Andò, Carlo Vizzini e Calogero Mannino. “Quell’allarme era considerato una patacca – ha detto Mancino – e io stesso lo considero un po’ eccessivo. In seguito a Montecitorio incontrai Mannino che mi disse ‘il prossimo sono io’”. Proprio ieri a Mannino è stato notificato dalla procura di Palermo un avviso di garanzia proprio nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa.

Le dichiarazioni di Mancino sono entrate in contrasto anche con quelle di Claudio Martelli, ministro della Giustizia fino al 10 febbraio 1993. L’ex guardasigilli ha raccontato ai magistrati palermitani di un suo colloquio con Mancino in cui si sarebbe lamentato per attività d’indagine non autorizzate dei Ros. Il riferimento è proprio agli incontri tra Vito Ciancimino, l’allora capo del Ros Mario Mori e il suo braccio destro Giuseppe De Donno: incontri che per gl’inquirenti sarebbero alla base della trattativa. Mancino però nega di aver mai fatto parola di quei colloqui tra il Ros e Ciancimino con Martelli: “Abbiamo parlato di altro – ha detto l’ex ministro – e in particolare dell’opportunità di lavorare in sintonia, come era accaduto con il mio predecessore”.

“Emergono evidentemente delle contraddizioni nelle cose dette, dai diversi esponenti delle istituzioni sentiti. Quindi qualcuno mente” ha fatto rilevare lo stesso pm Nino Di Matteo alla fine del lungo controesame di Mancino. “Ora – ha aggiunto Di Matteo – è compito della procura e del tribunale capire come sono andate veramente le cose”. È possibile a questo punto che venga disposto un confronto in aula tra Scotti e Mannino.

Durante la deposizione di Mancino il sostituto procuratore Di Matteo ha anche esposto una relazione della Dia in cui già nel agosto del 1993 si faceva presente che “togliere il 41bis ai mafiosi significa intavolare una tacita trattativa […] È chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione del 41bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe.” Nel novembre dello stesso anno in effetti non fu rinnovato il regime di carcere duro a 373 detenuti. “La gestione del 41 bis – ha spiegato Mancino – non era di mia competenza ma del ministro della giustizia Giovanni Conso (successore di Martelli). Non so perché Conso abbia fatto quella scelta”.

Il presidente della corte Mario Fontana ha chiesto a questo punto come mai Mancino non abbia approfondito con Conso il motivo di quella scelta, visto che poco prima la Dia l’aveva descritta (forse per la prima volta nella storia) come il prodotto della trattativa tra la mafia e lo Stato. “Ha ragione – ha risposto Mancino – forse avremmo dovuto discuterne in consiglio dei Ministri. Non se ne è discusso. Poi uno può dare anche delle spiegazioni. Dovevamo sciogliere le Camere ed entrare in campagna elettorale.”

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