Dainese, Omsa, Geox, Bialetti, Rossignol e tante altre aziende scelgono di produrre all'estero per ridurre i costi. Situazione particolarmente grave nel nordest per tessile e calzature. Per l'Isat, nel 55 per cento dei casi la meta è un paese europeo. Nell'ultimo decennio la casa automobilistica torinese ha cancellato ventimila posti nel nostro paese
Prendendo come base della propria ricerca le imprese italiane dell’industria e dei servizi con più di 50 addetti, l’Istat ha rilevato che nel periodo 2001-2006, circa 3. 000 imprese, pari al 13, 4 per cento delle grandi e medie imprese industriali e dei servizi, hanno avviato processi di questo tipo. L’internazionalizzazione ha interessato maggiormente le imprese industriali (17, 9 per cento) rispetto a quelle operanti nel settore dei servizi (6, 8). Ad attirare di più le imprese italiane nel periodo 2001-06 è stata l’Europa, verso la quale si è indirizzato il 55 per cento delle imprese internazionalizzate. Nel resto del mondo si distinguono Cina (16, 8) e Usa e Canada (complessivamente 9, 7), seguiti da Africa centro-meridionale (5) e India (3, 7). Per il periodo 2007-2009 l’Istat segnala una forte crescita degli investimenti in India, Africa e nei paesi europei extra Ue. Secondo i dati dell’European Restructuring Monitor, progetto che monitora i processi di ristrutturazione aziendale nei 27 paesi Ue più la Norvegia, la percentuale di incidenza degli stati asiatici è al 25 per cento.
La motivazione fondamentale di questa scelta è scontata, la riduzione del costo del lavoro e degli altri costi di impresa. Nelle brochure di consulenti aziendali come la Pricewaterhouse si può leggere che le opportunità della delocalizzazione sono date dalla crescita dei paesi emergenti, dal formarsi di una nuova classe media, dallo sviluppo delle infrastrutture e dall’emergere di sempre nuovi paesi (non solo est europeo ma anche Cina, Vietnam e Thailandia). Riguardo all’impatto sui posti di lavoro, secondo i dati dell’Erm, il 6,4 per cento dei posti di lavoro persi in seguito a ristrutturazioni aziendali è “imputabile a iniziative di delocalizzazione”. Numero che, per il 2009-10 significa circa 34 mila posti persi.
All’Italia va un po’ meglio di altri paesi europei che in termini di occupazione soffrono perdite maggiori: il 6,6 per la Francia, il 6,9 per la Germania e, addirittura, l’ 8,9 per cento per la Gran Bretagna. I comparti maggiormente colpiti sono quello tessile, l’abbigliamento e calzaturiero, la meccanica e le apparecchiature, industriali e per ufficio, la meccanica elettrica e il settore automobilistico (la Fiat in Serbia insegna).
Un ultimo sguardo sul fenomeno lo offrono i dati dell’Istituto per il commercio estero secondo i quali il numero di investitori italiani (gruppi industriali o imprese autonome) attivi sui mercati internazionali ammonta a quasi 5. 800 unità, per un totale di 17. 200 imprese estere partecipate a vario titolo con un numero di dipendenti totali pari a 1.120.550 unità per un fatturato realizzato dalle affiliate nel 2005 di quasi 322 miliardi di euro.
Per contro, le imprese italiane partecipate da società estere sono circa 7.000, con l’intervento di quasi 4.000 imprese investitrici, un totale di dipendenti in Italia di quasi 860.000 unità. Un saldo negativo per 260 mila posti di lavoro. Secondo la Banca d’Italia, la delocalizzazione è uno degli effetti della “nuova globalizzazione” in cui cresce l’interdipendenza tra imprese diverse collegate fra loro in una catena del valore. Ma, si domanda l’Istituto centrale, “occorre chiedersi che ruolo le imprese italiane stiano giocando, e possano in prospettiva giocare, in questo nuovo mondo”.
Da Il Fatto Quotidiano del 25 febbraio 2012