A fare incetta di statuette dovrebbe essere il film muto di Michel Hazanavicius. Come migliore attrice protagonista, nell'eterna lotta tra Streep-Thatcher e Close-Nobbs potrebbe spuntarla il "terzo incomodo", Viola Davis per The Help
Tutto è pronto, a Hollywood, per l’annuale liturgia di celluloide degli Oscar. E tutto è pronto, a quanto pare, per il trionfo annunciato di The Artist, il furbissimo film muto e in bianco e nero che secondo i pronostici dovrebbe fare incetta di statuette. Per Glenn Whipp del Los Angeles Times, non ci sono dubbi: The Artist miglior film, Hazanavicius miglior regista e Dujardin miglior attore. Sarebbe una vittoria su tutta la linea, con le categorie più importanti conquistate da un film che piace più per l’idea che rappresenta che per il “prodotto” cinematografico in sé. E Whipp si sbilancia anche sull’Oscar alla migliore attrice protagonista: vincerebbe il terzo incomodo (Viola Davis per The Help), sparigliando le carte nell’infinita battaglia tra Meryl Streep (una splendida Thatcher in un film deboluccio) e Glenn Close (maschio credibile in Albert Nobbs).
Dietro la sicurezza dei critici e degli esperti sembra esserci la consapevolezza che la macchina promozionale di The Artist è un bulldozer difficile da fermare, con milioni di dollari investiti appositamente per portare a casa le ambite statuette. Tutta opera di mister Weinstein, produttore potentissimo a Hollywood che di solito non fallisce la corsa all’Oscar. Vincerà l’idea di un cinema che non c’è più? Probabilmente sì, anche se l’Academy ogni tanto ci ha sorpresi con stravolgimenti inattesi. Di sicuro la concorrenza quest’anno non è delle migliori: The tree of life di Terrence Malick non è un film ma un’opera d’arte, troppo alta per competere sul piano commerciale ed evocativo; Hugo Cabret di Martin Scorsese è un film fatto “come Dio comanda”, con un 3D finalmente utile alla narrazione, ma è possibile che dopo aver perso decine di statuette con capolavori indiscussi, il regista italoamericano vinca proprio con una tipica bedtime story, seppur infarcita di colti riferimenti al cinema delle origini? War Horse di Steven Spielberg è un polpettone noioso che non dovrebbe nemmeno stare nella rosa dei nominati. Ma Spielberg è Spielberg e la nomination pare sia dovuta, in alcuni casi. Il Woody Allen di Midnight in Paris è noioso e soporifero e un Oscar per un film così lento e privo di un intreccio narrativo come si deve sarebbe una bestemmia. The Help qualche chance ce l’ha, ma nemmeno in questo caso parliamo di un capolavoro.
L’unica alternativa credibile a The Artist sarebbe potuto essere The Descendants (tradotto in italiano nell’orrido Paradiso amaro) , tratto da un bestseller di una scrittrice esordiente pieno di ironia, divertente cinismo e sobrie sofferenze. Ma la trasposizione cinematografica di Alexander Payne non è stata all’altezza del soggetto e George Clooney (per la sua nomination vale il teorema Spielberg di cui sopra) conferma, almeno ai nostri occhi, di avere un solo registro recitativo e di non esser riuscito a calarsi nelle molteplici sfaccettature e debolezze del personaggio.
The Artist, dunque. E non perché sia un capolavoro. Si tratterà, se dovesse andare come tutti crediamo, della congiuntura di più elementi: marketing, scarsa concorrenza, fenomeno di costume. Qualcuno ha scritto che far vincere The Artist nell’epoca di Facebook, Twitter e della tecnologia avanzata è un’operazione “paracula” di nostalgismo un tanto al chilo, che non tiene conto dello Zeitgeist contemporaneo. È esattamente quello che è successo lo scorso anno con l’Oscar a Il discorso del Re, splendido film che però rappresentava i tempi che viviamo con meno efficacia rispetto a The Social Network di David Fincher o al bellissimo Cigno Nero di Darren Aronofsky. Ma chi conosce anche solo un po’ gli strani meccanismi dell’Academy non si stupirà di certo. Trattasi di signori che hanno escluso dalle nomination J. Edgar di Clint Eastwood (ignorando snobisticamente ancora una volta un immenso Di Caprio) per fare spazio al cavallo imbizzarrito di Spielberg o alla monotona regia di Payne.
Le chiacchiere e le previsioni stanno per finire. Tra poche ore sapremo come sono andate le cose e faremo l’alba per assistere a uno degli eventi più attesi dell’anno, senza dimenticare di fare il tifo per i nostri Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, che strameritano l’Oscar per le fantasmagoriche scenografie di Hugo Cabret. La notte degli Oscar rappresenta al meglio quell’insieme di valori e disvalori, sogni e incubi, incarnati dall’american way of life, ma proprio per questo sarebbe sbagliato trattarlo come un Festival di Sanremo qualsiasi. Il centro del mondo dei sogni e delle fantasie umane è Hollywood e diamo una sbirciata alla cerimonia proprio per sentirci parte di questo Giano bifronte fatto di pure emozioni e terreni milioni di dollari. Perché in fondo non siamo l’Academy e noi lo Zeitgeist lo incarniamo fin troppo bene.