Si conclude il processo contro i protagonisti del caso Aldrovandi francese. Il giovane Hakim nel 2008 è morto soffocato dopo essere stato immobilizzato dai poliziotti. Sotto accusa le tecniche utilizzate dalla Bac in questo genere di operazioni
Anche la Francia deve affrontare il suo “caso Aldrovandi”. Due storie simili, quella di Federico e quella di Hakim Ajimi, che è quasi impossibile non paragonare. Giovanissimi entrambi, tutti e due morti durante quello che doveva essere un banale controllo di polizia. E mentre Patrizia Moretti, la madre di “Aldro”, deve affrontare un’accusa per diffamazione, Boubaker Ajimi, il padre del ventiduenne di origini tunisine, ha visto arrivare le prime condanne per tre dei sette agenti, coinvolti a vario titolo, nella morte del figlio.
Venerdì 24 febbraio, il tribunale correzionale di Grasse, in Provenza, ha condannato, rispettivamente a 18 e 24 mesi con la condizionale, i due agenti della Bac, la Brigata anti-criminalità, Jean-Michel Moinier e Walter Lebeaupin, quest’ultimo riconosciuto colpevole anche per omissione di soccorso. Sei mesi con la condizionale anche per l’agente di polizia municipale Jim Manach, colpevole del solo reato di omissione di soccorso.
La tenacia di chi è stato colpito da un dolore assurdo e inspiegabile è un altro degli elementi che rendono questa storia tragicamente familiare. Così come la Moretti ha dovuto mettere in campo tutta la sua determinazione per ottenere la riapertura del caso, allo stesso modo il signor Ajimi ha dovuto lottare perché a quasi quattro anni dall’accaduto, e dopo due ricorsi vinti in Corte d’Appello, si arrivasse finalmente al dibattimento, svoltosi tra il 16 e il 20 gennaio.
Ecco i fatti: il 9 maggio 2008, verso le 14.45, Hakim sta rientrando a casa. Non è stata una giornata tranquilla. E’ da poco uscito dalla sua banca, una filiale del Credite Agricole, dove aveva avuto una discussione con il direttore: si era visto rifiutare la possibilità di prelevare dei soldi. La discussione si era fatta violenta tanto che il direttore era stato costretto a richiedere l’intervento delle forze dell’ordine. Tuttavia, prima del loro arrivo, Hakim si calma e si allontana da solo dalla banca. In strada, il ragazzo viene raggiunto dai due agenti della Bac che vogliono interrogarlo. Ajimi reagisce male e ne scaturisce una colluttazione nel quale uno dei due poliziotti viene ferito ad una spalla.
Dopo alcuni minuti il giovane viene immobilizzato pancia a terra: l’agente Lebeaupin gli blocca spalle e testa con una presa al collo; il collega Moinier gli si siede sul dorso mentre Manach, arrivato in un secondo momento, gli afferra i piedi. Pochi minuti dopo le 15, Hakim, secondo il racconto di diversi testimoni, viene trascinato come un corpo morto alla volante sopraggiunta nel frattempo. Viene quindi affidato ad altri quattro agenti che lo trasportano in commissariato dove arriva già cadavere. L’autopsia accerterà che il ragazzo è deceduto per una lenta asfissia meccanica, causata da “un meccanismo di compressione del torace, associato senza dubbio a un’ostruzione delle vie respiratorie superiori (faccia al suolo, ndr)”. I problemi di carattere psichiatrico che Ajimi aveva avuto in passato non bastano a giustificare la violenza di cui è stato vittima.
Sotto accusa, le tecniche di immobilizzazione utilizzate dalla polizia francese. Non è un caso, infatti, che la strategia difensiva si sia basata principalmente sull’assunto che i poliziotti non hanno fatto altro che applicare i metodi appresi nel corso dell’addestramento. “E’ molto inquietante. Se delle tecniche che vengono oggi insegnate possono portare al decesso di una persona in qualche minuto – l’azione si è consumata in una decina di minuti – effettivamente è molto inquietante”. Questo, il commento di Patrick Delouvin, responsabile degli interventi sulla Francia per Amnesty International.
In tre diversi rapporti (2005, 2009 e 2011) l’associazione ha denunciato non solo la pericolosità di queste tecniche di intervento – richiamando anche un pronunciamento della Corte Europea dei diritti del uomo – ma anche la mancanza di inchieste effettive e una certa reticenza della giustizia nell’accertare eventuali negligenze e responsabilità quando sul banco degli imputati ci sono rappresentanti delle forze dell’ordine. L’ultimo rapporto, pubblicato lo scorso novembre, prende in rassegna cinque casi, tra i quali quello di Ajimi. Cinque uomini, tutti di origine straniera, morti tra il 2004 e il 2009, durante un interrogatorio o mentre si trovavano in commissariato. Le loro famiglie aspettano ancora verità e giustizia.
di Francesco Sellari e Davide Leggio