L'ex ministro in silenzio davanti ai magistrati, ma ai giornalisti dice: "Avrei parlato se non mi avessero indagato. All'epoca non ero preoccupato per me, ma per Falcone e Borsellino". Ma agli atti dell'inchiesta ci sarebbe la testimonianza di un agente su una telefonata del politico per ammorbidire il carcere duro. Le contraddizioni con la deposizione di Nicola Mancino
Muto con i magistrati e loquace con i giornalisti. Calogero Mannino si è avvalso della facoltà di non rispondere davanti al procuratore aggiunto Antonio Ingroia e ai sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava e Paolo Guido, che lo hanno interrogato a Palermo nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra. L’ex Ministro dell’Agricoltura è considerato dagli inquirenti come uno dei registi che nel periodo 1992-93 si adoperarono per creare un contatto tra le istituzioni e la mafia, agevolando poi le richieste avanzate dai boss.
“Mi aspettavo di essere sentito come persona offesa o al massimo come persona informata sui fatti, invece mi ritrovo indagato e ho scelto dunque di avvalermi della facoltà di non rispondere”, ha detto Mannino uscendo dal palazzo di giustizia palermitano, dove si è intrattenuto con i giornalisti distribuendo anche un comunicato stampa. “Se fossi stato sentito in altra veste – ha continuato l’attuale senatore del gruppo misto – avrei contribuito a fornire delucidazioni e opinioni su quella tragica stagione del ’92 la cui ricostruzione storica è sempre più necessaria, e invece devo sopportare ancora una volta il gioco di pretese accusatorie assolutamente prive di fondamento. Io sono una vittima innocente della mafia che mi voleva colpire con l’uccisione prima e con la calunnia dopo”.
VIDEO: MANNINO ALL’USCITA DA PALAZZO DI GIUSTIZIA
Video di Silvia Bellotti
Dopo la strage di Capaci, l’input per avviare un contatto con Cosa Nostra sarebbe partito, secondo gli investigatori, proprio dall’ex ministro siciliano, che avrebbe attivato in questo senso il generale dei Ros Antonio Subranni e l’allora numero tre del Sisde Bruno Contrada. L’obbiettivo era capire che cosa volesse la mafia per far cessare l’attacco violento contro gli uomini delle istituzioni. E proprio in quella primavera del 1992 che torna a volare il “Corvo di Palermo” che in una lettera anonima raccontava addirittura di un duplice incontro tra Totò Riina e lo stesso Mannino in una chiesa di San Giuseppe Jato. Una manovra che sarebbe stata dettata soprattutto dalla paura dato che Mannino era, insieme a Carlo Vizzini e Salvo Andò, uno dei tre politici siciliani condannati a morte da Cosa Nostra.
Il pentito Giovanni Brusca ha raccontato come per l’eliminazione di Mannino il gruppo di fuoco mafioso si fosse già preparato sia a Palermo che a Sciacca (città d’origine del politico democristiano). L’ex ministro – in passato arrestato, processato e assolto per mafia – ha smentito totalmente ogni accusa: “Io non ho mai percepito che potesse essere in atto una trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra. Non è vero che ero spaventato per la mia vita, ero spaventato per la sorte dei veri e unici eroi della lotta alla mafia, Falcone e Borsellino, che purtroppo sono morti per la loro battaglia. Sono tutte cose che sono state chiarite nel mio processo: è vero che ho incontrato Subranni e Contrada, ma solo nella loro funzione ”.
Pochi giorni fa l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino aveva raccontato in aula come, dopo l’assassinio di Salvo Lima, avesse incontrato a Montecitorio proprio Mannino, che visibilmente spaventato gli avrebbe detto “il prossimo sono io”. Mannino però oggi nega, smentendo di fatto il racconto di Mancino. “Purtroppo – ha detto a ilfattoquotidiano.it – quando si parla di questi fatti si è abbastanza imprecisi: ho visto però che Mancino non ha sostenuto la perentorietà di questa sua affermazione. Io con Mancino ho solo parlato di quello che stava accadendo, manifestando preoccupazione per i magistrati che rischiavano più di me. Non so se ci sia stata malafede tra uomini dello Stato: quando si parla di queste cose si deve parlare di cose che si sanno, io non le so e non si può vivere di sospetti”.
Sul capo dell’ex esponente della Dc penderebbe però anche altro. Ci sarebbero nuove circostanziate dichiarazioni, non solo da parte dei collaboratori di giustizia, ma anche di persone informate sui fatti. Si parla addirittura di un supertestimone che avrebbe assistito a una telefonata tra lo stesso Mannino e Francesco Di Maggio, all’epoca vice capo del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria). Una conversazione – raccontata oggi ai pm da un’ex agente di scorta dell’allora dirigente del Dap – in cui Mannino avrebbe insistito affinché Di Maggio intervenisse sul carcere duro, ammorbidendo alcuni provvedimenti di 41 bis per i detenuti mafiosi. Circostanza questa già profeticamente prevista come oggetto della trattativa in una relazione della Dia dell’agosto del 1993, e che poi si è effettivamente concretizzata nel novembre successivo, quando non furono rinnovati ben 373 provvedimenti di carcere duro a detenuti mafiosi.
Una ricostruzione che Mannino ha definito “fantasiosa”. “Non conoscevo personalmente Di Maggio – ha detto il parlamentare eletto nell’Udc – e non credo di averlo mai sentito al telefono: questa telefonata di cui si parla non esiste. Io ero già indagato per Tangentopoli nel luglio del 1993, ero quindi fuori da ogni possibilità di svolgere un’azione politica. Non ho mai esercitato pressioni per il 41 bis. Di Maggio ha emesso provvedimenti sul carcere duro e non credo che sia stata la mia autorità a influenzarlo. Il contesto è molto preciso, non mi riguarda e non lo discuto. Devo sottolineare però con amarezza che i magistrati stanno perdendo l’occasione di ricostruire quel periodo sul piano storico, in un senso che non è politicamente di loro gradimento”.
Oltre all’ex notabile democristiano, la procura di Palermo ha fino a oggi iscritto nel registro degl’indagati per l’inchiesta sulla trattativa anche i boss mafiosi Totò Riina, Bernardo Provenzano e Nino Cinà, gli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno e il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri.