Vittorio Feltri è un uomo che spesso azzarda. L’elegante direttore ha sempre azzardato anche nel distinguersi per le sue campagne contro il giustizialismo, ovviamente quando esso è riferito ai potenti, non certo quando nella macchina della Giustizia finisce un nuddu miscatu cu nenti, un poveraccio.
Feltri ha menato fendenti contro chi a sosteneva che dopo una sentenza di condanna in primo grado, ad esempio per associazione mafiosa, non si dovese essere candidati alle elezioni. La sua teoria, rispettabilissima, si basa sulla presunzione di innocenza. Tale principio, sancito dalla Costituzione, ci dice, in buona sostanza che il disposto di una sentenza non può essere considerato definitivo fino a quando non sono stati esitati tutti i gradi del giudizio. Una sentenza in primo grado, ci hanno sempre ricordato Feltri e gli altri Soloni del Pdl, non può essere motivo di pregiudizio morale o politico fino a quando non passa in giudicato. Quindi in presenza di una possibilità di un giudizio di appello o di Cassazione la sentenza, insomma, non esiste. E’ ancora tutto da vedere.
Questo principio, nella particolare visione giuridica di Vittorio Feltri, sembra valere soltanto per le sentenze di condanna, in particolare per le sentenze di condanna che riguardano il cavaliere Berlusconi, e i suoi sodali a vario livello. Se un uomo del Pdl, come è accaduto ad esempio al senatore Marcello Dell’Utri, viene condannato per fatti di mafia, bisogna attendere la Cassazione e perché no – vedi il caso di Contrada – anche un ipotetica e mai accolta istanza di revisione, per poter esprimere un giudizio politico e morale.
Tale principio di prudenza non vale invece per le sentenze di assoluzione riferite sempre agli uomini del Pdl. Prendiamo ad esempio Giorgio Magliocca. Costui è l’ex sindaco di Pignataro Maggiore in Campania , nonché ex consulente del sindaco di Roma; la Dda di Napoli lo accusa di concorso esterno in associazione camorrista e ne ottiene l’arresto. L’accusa aveva chiesto sette anni di carcere, ma il Gup che lo giudicava con il rito abbreviato, buon per lui lo ha assolto con formula piena. Ebbene l’ineffabile direttore, con i suoi modi forbiti, e facendo del codice di procedura penale, lo stesso uso che Bossi vorrebbe fare del Tricolore, impugna le penna e scrive un editoriale di fuoco.
Se la prende con Roberto Saviano, con i poliziotti, con gli inquirenti, invitandoli sbrigativamente a chiedere scusa a Giorgio Magliocca: vittima innocente della persecuzione giustizialista e di oscure manovre politiche. Le accuse nei suoi confronti, asserisce categoricamente Feltri, sono calunnie. Magliocca – dice – è un uomo perbene (stavo per scrivere, citando Shakespeare, un uomo d’onore), lo ha stabilito il giudice (di primo grado) quindi chi lo accusa ha torto e deve cospargersi il capo di cenere. E quel carcere ingiustamente patito da quest’uomo immacolato? Manca solo che Feltri ne chieda la beatificazione al Vaticano.
In questo caso per Feltri i tre gradi di giudizio non esistono. Non lo sfiora neppure il dubbio che la Procura potrebbe, come verosimilmente farà, ricorrere in appello, non prende neppure in considerazione l’ipotesi che nel processo di secondo grado dei giudici (ovviamente comunisti) potrebbero, parliamo sempre in via teorica, ribaltare la sentenza e condannare l’imputato. Per Feltri la sentenza di assoluzione (solo quella di assoluzione), se riferita ad un rais del Pdl, è dunque cosa giudicata sin dal primo grado. Una visione che fa pendant, così come i maglioni di Feltri e le sue cravatte, con un proposta di legge targata Pdl che voleva le sentenze appellabili solo dalla difesa e non dall’accusa. Una delle tante leggi vergogna che il Parlamento non ha avuto la faccia tosta di approvare.