Depurata l’aria dai miasmi ideologici e dalla disinformazione televisiva lo spartiacque della politica economica è ben delineato. L’Italia, a differenza dei PIGS e di altri paesi europei, ha accumulato risparmio per almeno due generazioni. La dicotomia tra le visioni di politica economica che si confrontano al riparo della cortina fumogena del governo Monti ha per oggetto proprio questo risparmio. In estrema sintesi, si confrontano due campi, entrambi trasversali ai cosiddetti schieramenti politici.

Al primo appartengono quanti vorrebbero espropriare queste risorse in modo più o meno elegante (o strisciante) per alimentare la caldaia dell’inefficienza, della burocrazia, dell’economia assistita, del clientelismo, dello spreco e della protezione sociale come privilegio garantito a pochi attraverso la cassa integrazione. Portabandiera di questi interessi sono ampi settori sindacali che costituiscono la cinghia di trasmissione della casta. Altri, talora insospettabili nelle loro grisaglie confindustriali o bancarie, si nascondono per ora sotto le gonne vintage della Camusso, pronti a dare man forte quando il richiamo della foresta consociativo risuonerà in Transatlantico.

Del secondo fanno parte invece quelli che vorrebbero ristabilire le condizioni affinché queste risorse (irrobustite anche da capitali stranieri) vengano investite con profitto (chiedo scusa per il termine di inusitata volgarità) in Italia per riconvertire il sistema economico italiano e ripristinare la capacità di crescita di lungo periodo. Questo secondo campo è numericamente maggioritario (include giovani precari, piccoli imprenditori non assistiti, professionisti, disoccupati, artigiani, eccetera) ma rimane privo di rappresentanza politica forte perchè composto da interessi diffusi e quindi poco organizzati. Ai tavoli di Palazzo Chigi per loro non è prevista sedia o strapuntino.

Dopo il disastro tremontiano con l’avvento di Monti era sbocciata la speranza che dal ripido pendio degli espropri per pagare gli sprechi si intendesse risalire sia pure a fatica. Ma si è trattato di un effimero interludio. Dopo il drastico inasprimento fiscale fatto ingoiare, come alle oche da fois gras, con la solita litania dell’emergenza, si è attesa per settimane la cosiddetta Fase 2 che affrontasse i nodi strutturali. Invece di incalzare una politica in rotta, disposta a cedere (magari con qualche starnazzo) su molti fronti, il governo dei tecnici (ma sarebbe meglio dire, dei burocrati) ha scoperto una italianissima vocazione da compromesso al ribasso siglato non più nei retrobottega o nei camper, ma sotto i tunnel.

Anche se queste liberalizzazioni e semplificazioni farsa sopravvivano alla sventagliata di emendamenti, il test per valutarne l’efficacia è di disarmante semplicità. Basta chiedersi cosa cambia per un investitore non puramente finanziario rispetto a tre mesi fa? Chi potrebbe mai convincersi che dopo questi decreti aprire un’attività o espandere una esistente possa convenire? Cosa dovrebbe indurre un imprenditore ad assumere o quantomeno a non licenziare? E come verrà riattivato il rubinetto del credito soprattutto per iniziative nuove.

Ci vuole ben altro che qualche farmacista e notaio in più, un certificato in meno o una scadenza diversa sulla carta di indentità o la presa in giro della società con un euro di capitale per far scattare la molla dell’attività economica e riparare sul serio il motore grippato della crescita. Almeno si pagassero i debiti contratti dalle istituzioni e dagli enti pubblici con le imprese. Ma neanche di questo elementare principio di legalità si trova traccia.

Ci si congratula che gli spread siano scesi e la situazione non sembra tanto grave come a novembre. E’ vero che i cinegiornali Luce del XXI secolo celebrano i trionfi nello Studio Ovale, nella City e a Wall Street, come celebravano i discorsi al Congresso USA, gli abbracci di Putin e i baciamano a Gheddafi. Ma in realtà gli spread sono scesi sensibilmente solo dopo che Draghi ha aperto a manetta le valvole della liquidità inondando le banche (sia sane che insolventi) di mezzo trilione di euro. Infatti le agenzie di rating non si sono lasciate abbacinare dagli specchietti di Palzzo Chigi o dalle quotidiane comparsate televisive. E’ bastato loro rileggere la lettera spedita dalla Bce al governo italiano in agosto. Quasi tutti i capitoli rimangono tristemente in sospeso (nonostante l’ingiunzione ad operare immediatamente) con l’eccezione dell’intervento sulle pensioni. Francamente non è roba che impressioni più di tanto chi dovrebbe affidare i propri risparmi al Tesoro italiano. L’aplomb del compassato pubblico di Wall Street e della City o il linguaggio diplomatico di circostanza può indurre in qualche tragico equivoco. Un applauso alla ritrovata sobrietà al limite si può anche concederlo, tanto non costa. Ma non per questo si allentano i cordoni della borsa tantomeno per un paese in recessione (cosa su cui i telegiornali minzolianamente glissano).

E se le zavorre che ci trascinano nella spirale di recessione e maggiori carichi fiscali, non vengono alleviate sul groppone di quanti ancora nel settore privato hanno energie non annichilite da decenni di dissenatezze politico-sindacali, le previsioni rosa shocking sul pareggio di bilancio in Italia avranno un posto di rilievo nei libri di storia. Nello stesso capitolo dedicato al programma di stabilità della Grecia.

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