Vi ricordate di Little Miss Sunshine?

Durante la realizzazione del documentario Divine ci rimasi male quando scoprii che i beauty pageants di Little Miss Sunshine in Italia non esistono. I concorsi di bellezza per bambini da noi si riducono a qualche concorso estivo nelle spiagge romagnole. Niente di established.

In Italia invece domina l’industria della moda per bambini. Come racconto anche in Divine, il PittiBimbo ne è la sua espressione massima. È qui che convergono tutti i lavoratori del settore (e sono tanti, tra buyer, fotografi, casting director, organizzatori, eccetera…). È attraverso i marchi di moda che alle bambine (e ai loro genitori) viene data la possibilità del sogno: shooting, sfilate, pubblicità.

Non mi sono più occupata di concorsi di bellezza fino a quando sono andata a vivere per un po’ di tempo negli Usa. Lì mi sono riavvicinata al mondo della pageantry. Il termine, inesistente in italiano, in America racconta un mondo e un modo di vivere.

I beauty pageants sono un’istituzione radicata negli Usa.

Atlantic City, anni Venti. Per prolungare il soggiorno dei turisti nel suo hotel, un albergatore inventa la prima Miss America. Inizia così quello che oggi è un fenomeno dello Showbiz con linguaggio e regole codificati.

I beauty pageants rafforzano gli stereotipi e un’idea del femminile a dir poco conservatrice. Involontariamente però ispirano il dibattito della società civile americana attorno a temi come la girlhood e la celebrity culture.

Esiste anche la versione maschile, tuttavia il suo vero specifico è femminile.

La donna viene rappresentata in ogni momento della sua vita, dalla nascita alla vecchiaia. La sua età viene incasellata in micro categorie: 2-4 anni, 4-6 anni, e così via fino all’ottantenne.

Si dà spazio a tutte; paghi per partecipare e hai il tuo momento di celebrità.

I giudici valutano tutto, non si limitano al corpo. Il “prodotto donna” viene sezionato e scrupolosamente giudicato attraverso specifici momenti all’interno del concorso.

Concetti complessi come corpo, personalità, eleganza, femminilità, e tutto ciò di cui si pensa sia fatta la femmina di ogni età, passa allo scandaglio di una giuria di “esperti”.

Saltano agli occhi le caratteristiche made in Usa. L’estetica pop appiattisce e inghiotte tutte le partecipanti. La competitività, altra prerogativa americana, non risparmia nessuno, neanche le più giovani. Si gareggia solo per vincere.

Le bambine sono il principale (e probabilmente anche il più manipolabile) prodotto dei beauty pageants. Qui però il mondo della pageantry statunitense si divide in due categorie “morali”. Ci sono i concorsi di bellezza che mantengono l’estetica dell’infanzia e che quindi vietano la messinscena dell’età adulta attraverso il trucco e i costumi, nella pretesa di preservare anche le fondamenta stesse dell’infanzia.

E poi ci sono i Glitz Pageants, termine apparentemente innocuo che racconta qualcosa di terribile. Toddler’s and Tiaras è lo spettacolo più famoso perché passa in tv su TLC.

Si potrebbero spendere molte parole sui video di Toddler’s and Tiaras caricati su Youtube; oppure rimanere senza.

Io mi chiedo, cosa tiene incollato il pubblico allo schermo?

Gli episodi raccontano situazioni famigliari molto diverse tra loro che culminano sempre con l’esibizione finale da parte della bambina.

Sono casi estremi che rappresentano in realtà modalità di relazione molto comuni nei rapporti genitore-figlia. Ad esempio, il rispecchiamento della mamma nella figlia, il riscatto sociale attraverso la bambina (che in questo caso partecipa a un concorso di bellezza, ma potrebbe benissimo essere una pianista o un matematico), la deresponsabilizzazione del genitore, i rapporti di potere ribaltati in cui la madre è subordinata alla figlia, eccetera. Il pubblico ritrova tutto questo in Toddler’s and Tiaras e probabilmente, a livello inconscio, si identifica nei personaggi.

La situazione però è così estrema che si è portati a prendere le distanze e a guardare con orrore a quello che succede.

Orrore e sollievo. Sollievo perché in quel momento appare chiaro che, nonostante tutto, si è (o si può essere) genitori migliori. Si guarda all’orrore per sentirsi meglio, in opposizione ad esso. “Io non sono quella cosa lì”.

Credo che in parte Toddler’s and Tiaras svolga questa funzione catartica all’interno della società americana.

La bambina non solo è costretta a coabitare il mondo dell’infanzia e dell’adulto, ma diventa anche strumento di “espiazione”.

Cosa prova la mamma nel momento in cui vede sua figlia completamente trasfigurata sul palco?

Guardando e riguardando le clips di Toddler’s and Tiaras mi sembra chiaro un punto. Il rispecchiamento della madre nella figlia, che ho raccontato in Divine, qui avviene senza filtro, in maniera diretta. La mamma utilizza la figlia a sua immagine e somiglianza. Neanche si accorge che questa donna travestita è in realtà una bambina di quattro anni.

La mamma è una dea che crea e plasma la sua creatura. E così facendo supera se stessa.

Appare incredibile che glielo si lasci fare, che negli Usa non ci sia un ente che tuteli l’infanzia, almeno nella sua rappresentazione mediatica.

In Italia e nel resto d’Europa questo filtro c’è (vedi anche qui). Poco importa se frasi sentite mille volte nel corso di Divine, come “il bambino dev’essere naturale”, oppure “è solo un gioco” siano svuotate di senso. L’adultizzazione visiva del bambino rimane un tabù per noi, una frontiera da non oltrepassare. Ipocrisia moralista o consapevolezza? Chi lo sa, forse entrambe le cose.

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