La portata della crisi ha sicuramente dimensioni transnazionali, ma per gli italiani all’estero rischia di diventare drammatica. Si respira un clima strano tra le famiglie, che sembra ribadire la scelta del “non tornare”. Da un valente scrittore albanese, appresi questa consuetudine di definire la migrazione suddivisa in tre scelte: “va e torna subito”; “va e torna dopo molto tempo”; “va e non torna”. Il mio giovane amico di Tirana Ron Kubati, mi spiegava che erano i tre modi di interpretare la migrazione del popolo albanese in fuga dal paese delle aquile negli anni ’90. Anche tra gli italiani all’estero questa regola universale delle migrazione ha la sua valenza. In ogni generazione prevale l’una o l’altra a seconda delle circostanze.
Bene, questa è l’epoca del “va e non torna”, nel senso che il convincimento di non rientrare più in Italia si fa sempre più forte. Motivi? La crisi, che mostra un’Italia sempre più insicura in settori fondamentali come la sanità e la scuola, e la consapevolezza che sarà sempre più difficile assicurare il lavoro ai propri figli. Su questi aspetti la sensibilità di chi vive e lavora all’estero è particolarmente elevata, poiché nel progetto del viaggio di migrazione ogni individuo tiene conto di questi fattori fondamentali. Quindi l’idea di non tornare si fa strada nelle giovani generazioni che tendono ad integrare maggiormente i propri figli in Svizzera o nelle società dei paesi ospitanti. In Svizzera ciò significa concentrare l’attività dei propri figli nella lingua del posto attraverso le strutture scolastiche elvetiche.
Coincidono, a questo punto, due fenomeni: l’abbandono dell’italiano che da anni le autorità elvetiche programmano nelle scuole in favore dell’inglese; i drastici tagli dettati da anni di governo Berlusconi ed aumentati per via della crisi dal governo Monti in favore della promozione della lingua e cultura italiana all’estero. L’insegnamento dell’italiano era generalmente garantito dallo Stato italiano attraverso i corsi di lingua e cultura a cui partecipano di diritto tutti i ragazzi italiani in età di obbligo scolastico. Due ore a settimana di corso, che per almeno 20 anni hanno garantito l’apprendimento dell’italiano e della cultura italiana ai nostri ragazzi che vivono in Svizzera. Con la crisi e i tagli del 50% dei contributi sui capitoli destinati a ciò, dal prossimo settembre chiuderanno molti di questi corsi e alle famiglie, già orientate al “non tornare”, non resterà più alcuna possibilità di far apprendere l’italiano ai propri figli.
Un italiano all’estero che cresce e matura la propria personalità senza la conoscenza della propria lingua e la propria cultura, ha poche possibilità di riuscire ad evidenziare il suo talento. Nello stesso tempo si spegne in lui quella capacità di essere naturale e capillare diffusore del made in Italy. Mi ricordo Sofia che a 13 anni faceva più di 12 chilometri per raggiungere dal suo paesino la scuola dove si “imparava a essere italiani”. La mamma, traduttrice presso una grande azienda, gli aveva sempre detto che era importante, perchè quando sarebbero tornati in Italia il tedesco o l’inglese sarebbero serviti a poco, e in Svizzera l’italiano le aveva garantito un ottimo lavoro nella sua azienda. Sofia si recava in bicicletta a scuola con una costanza e precisione tipica di chi frequenta scuole elvetiche. Aveva la consapevolezza che quei chilometri facevano parte del lungo viaggio verso il futuro. Insomma un italiano senza l’italiano è un cittadino senza radici; è come quegli ulivi secolari che osserviamo all’estero abbellire luoghi per donar loro la mediterraneità, trapiantati dalle terre di Puglia e di Sicilia, contrabbandati o rubati per essere venduti a caro prezzo. Sì, gli italiani, proprio come quegli ulivi. Belli ma tristi.