Secondo i dati dello Stockholm international peace institute, la crisi globale non ha prodotto danni al commercio bellico, pur in flessione rispetto al +8% del 2009. Al primo posto al mondo l'americana Lockheed Martin, leader di un mercato in cui gli Usa fanno il 60% del fatturato. Ottava l'italiana Finmeccanica. Nessun riscontro invece sulla Cina, che non fornisce dati sulla sua produzione di armamenti, sempre più diretta all'esportazione
Un ritmo di crescita certamente inferiore al +8% registrato nel 2009, ma che rappresenta comunque un incremento di oltre il 60% rispetto al 2002.”Fino ad oggi c’è stato un impatto moderato della crisi sul settore” spiega Susan Jackson, capo dell’Arm production project dell’istituto svedese, e non è detto che con i piani di austerità adottati da alcuni le cose cambino: “Un fattore importante nell’esaminare i tagli alle spese militari è considerare cosa viene tagliato nei bilanci. Per esempio, sono spese correnti? Approvvigionamento di armi? Solo una parte di queste spese, e quindi di questi tagli, hanno un impatto diretto sul settore industriale bellico”.
Ad esempio, le pesanti riduzioni di personale annunciati dal Pentagono, che punta a diminure di oltre 92mila unità il numero di militari dell’esercito Usa, anche ricorrendo a licenziamenti, avranno presumibilmente un effetto negativo limitato per i produttori di armi.
Anche in tempi di ristrettezze di bilancio, pare infatti difficile che gli Stati Uniti abbiano intenzione di attenuare la loro leadership nel settore, mantenuta saldamente anche nel 2010, con 44 aziende nelle prime 100 al mondo e 236,88 miliardi di dollari di fatturato da materiale bellico, pari a oltre il 60% del giro d’affari complessivo del settore. Un plotone guidato dal colosso Lockheed Martin – che tra aerei, equipaggiamenti elettronici, missili e componenti aerospaziali in un anno ha venduto armi per 35,7 miliardi – e in cui spiccano nomi noti come Northrop Grumman, leader mondiale delle navi da guerra e inventore del drone da sorveglianza Global Hawk, quarta con 28.15 miliardi di dollari. E poi la specialista in missili intelligenti Raytheon, sesta con 22,98 miliardi, e quella dei carri armati Oshkosh, tredicesima con 7,08 miliardi.
Ma in cui non mancano aziende insospettabili, da Honeywell, famosa per termostati e altri apparecchi di regolazione domestica ma esperta anche in bombe a frammentazione e sistemi di guida per missili, a Hewlett Packard, che oltre a computer portatili e stampanti vende componenti per uso militare, da cui nel 2010 ha incassato 2,57 miliardi di dollari.
Dietro di loro, le sorelle europee, concentrate soprattutto in Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia, che conquistano il 29% del giro d’affari del settore. Grazie anche all’italiana Finmeccanica, che – prima della crisi di quest’anno – si era confermata numero 8 al mondo nel commercio di materiale bellico con 14,41 miliardi di dollari di ricavi (58% del fatturato totale del gruppo), e vanta ben quattro filiali che se fossero aziende autonome avrebbero diritto a un posto tra le prime cento: Agusta Westland (2,92 miliardi di introiti da armi, equivalente al 26° posto in graduatoria), Alenia Aeronautica (1,92 miliardi, equivalente al 47° posto), Selex Galileo (820 milioni, 78° posto) e Selex Communications (750 milioni, 88° posto). A queste va aggiunta la partecipazione del 25% in Mbda, consorzio di progettazione e costruzione di missili creato nel 2001 insieme ad Eads e alla britannica Bae systems, che con i suoi 3,71 miliardi di dollari di incassi sarebbe 21° nella classifica dell’istituto svedese.
Resta nella Top 100 anche Fincantieri, scivolata dalla 71a alla 73a posizione della graduatoria, nonostante la vendita di navi da guerra e sistemi di navigazione per uso militare abbia fruttato più che nel 2009, 940 milioni di dollari invece di 860. Una discrepanza presto spiegata: da un anno all’altro, la soglia di proventi da materiale bellico necessari per entrare nella Top 100 si è innalzata, da 280 a 640 milioni, a causa della crescente concentrazione del settore.
Nella lunga e danarosa lista del Sipri mancano però degli attori importanti, che almeno a parole sembrano capaci di gareggiare con i grandi conglomerati occidentali della difesa: le società cinesi, che producono per il nutrito esercito di Pechino ma sempre più spesso anche per l’esportazione verso Paesi come Pakistan, Ghana, Tanzania e Yemen. “Numerose aziende cinesi produttrici di armi sono abbastanza grandi per poter entrare nella Top 100 del Sipri, ma non ci è possibile includerle per la mancanza di dati accurati e comparabili – spiega ancora Susan Jackson – Fino a quando non ci sarà maggiore trasparenza finanziaria, non possiamo collocarle con certezza”.
Un’idea dell’ordine di grandezza del loro business, in ogni caso, si può avere esaminando le cifre pubblicate dall’Esercito di liberazione popolare sulle sue spese, che, dal 1998 al 2010 sono cresciute incessantemente, a un ritmo medio superiore a quello del prodotto interno lordo della Cina (15% contro 12,9%), arrivando, secondo l’opaco rendiconto ufficiale, a 78 miliardi di dollari. Cifra che non include diverse voci di spesa che sono invece considerate nei bilanci degli eserciti europei e americani, in testa gli esborsi per equipaggiare i corpi paramilitari e i circa 660mila uomini della polizia militare.