Due milioni e quattrocentomila no all’accordo commerciale anticontraffazione Acta. Tante sono le firme raccolte dall’associazione internazionale Avaaz e consegnate ieri in commissione petizioni del Parlamento europeo a Bruxelles. Ma il conto, a giudicare dal sito dell’associazione, continua a salire. Sono tutti cittadini europei che scrivono ai loro rappresentanti di Bruxelles affinché gettino nel cestino il tanto contestato accordo internazionale Acta che, secondo i suoi oppositori, costituisce una minaccia alla libertà di espressione online.
“Acta” sta per “anti-counterfeiting trade agreement” e in teoria dovrebbe essere la panacea a tutti i furti di proprietà intellettuale sul web. Non solo film e musica, ma anche, e soprattutto, brevetti su beni, servizi e attività legati alla Rete. Secondo Bruxelles la proprietà intellettuale è la “materia prima principale” dell’Europa, quindi va difesa a tutti i costi dalla contraffazione e dalla pirateria informatica.
Ma secondo il popolo della Rete, questo “a tutti i costi” non può comprendere anche la “libertà d’espressione sul Web” che, secondo loro, verrebbe sacrificata in nome di interessi puramente commerciali. Secondo la coalizione anti-Acta, formata da associazioni come Edri, EFF, La Quadrature du net, Acta assegna un ruolo di sceriffi agli Internet service provider e agli intermediari di servizi Internet (come Google, Yahoo! o Wikipedia), che potrebbero sorvegliare e filtrare le informazioni scambiate dagli internauti.
È vero, in Europa la contraffazione e il furto di proprietà intellettuale sono un problema reale. Le autorità di dogana Ue stimano che i beni contraffatti che entrano ogni anno in Europa sono triplicati dal 2005 e il trend è in costante ascesa. Solo nel 2010 sono stati registrati 80mila casi di contraffazione, con 103 milioni di prodotti ritrovati ai confini dell’Ue. Uno studio Ocse stima che il commercio di beni contraffatti a livello mondiale è cresciuto da 100 miliardi di dollari nel 2000 a 250 nel 2007, all’incirca il Pil di 150 Paesi.
La domanda a questo punto è: Acta è proprio la soluzione a tutti i mali? E che prezzo si è disposti a pagare per combattere la contraffazione? Di certo non la libertà della rete, almeno secondo Avaaz, che ha raccolto (rigorosamente online) 2,4 milioni di firme di cittadini europei per chiedere lo stop immediato dell’accordo firmato a Tokyo lo scorso 26 gennaio da Ue, Australia, Canada, Giappone, Stati Uniti, Corea del Sud, Messico, Marocco, Svizzera, Nuova Zelanda e Singapore. Le firme sono state consegnate alla commissione Petizioni del Parlamento europeo che adesso dovrà decidere se accettarle o meno (ci vorranno un paio di mesi). Il prossimo passo potrebbe essere la richiesta alla Commissione europea di aprire un’inchiesta preliminare, il passaggio a un’altra commissione parlamentare oppure un rapporto motivato da presentare e votare in sessione plenaria. Ma a Strasburgo Acta arriverà in ogni caso, visto che per entrare effettivamente in vigore ha bisogno del via libera del Parlamento europeo e della ratifica di tutti i 27 Paesi Ue. Cosa piuttosto difficile, a giudicare dalla sollevazione popolare internazionale che ha spinto ben cinque Paesi (tra cui Bulgaria, Olanda e Germania) a sospendere la sua ratifica.
”L’Acta potrebbe consentire alle corporazioni di censurare internet”, si legge nella petizione di Avaaz, che attacca anche il modo con cui sono stati condotti i negoziati. “Non è vero”, risponde la Commissione europea, che ad ogni modo ha deciso di rimettere il testo dell’accordo alla Corte di Giustizia Ue per verificare se mette davvero a rischio i diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione. Nel frattempo il Commissario Ue al Commercio Karel De Gucht ha cercato di riassicurare l’opinione pubblica internazionale: “Nessun sito verrà chiuso e censurato, non c’è nessuna minaccia alla libertà di espressione e della Rete”.
Ma notizie contrastanti arrivano da oltre oceano. Da Washington Niccolò Rinaldi, Eurodeputato IdV, membro della commissione mercato interno del Parlamento europeo e relatore ombra del Parlamento per Acta, fa sapere che il senatore Ron Wyden, presidente della sotto commissione americana per il commercio internazionale, gli avrebbe confidato che, secondo lui, “nessuno dei social network che si sono sviluppati negli ultimi anni, come Facebook e Wikipedia, si sarebbe potuto sviluppare in presenza di un accordo come Acta, che implica una responsabilità per le piattaforme Internet e i divulgatori di contenuti che non possono necessariamente controllare”. Secondo Wyden, vista la poco probabile maggioranza al Senato e al Congresso americano su Acta, questo potrebbe finire per essere considerato “non binding” (non vincolante, ndr), “È evidente come l’accordo sia profondamente osteggiato anche sull’altra sponda dell’Atlantico e come sia poco chiaro cosa si debba infine ratificare, visto che ora si parla apertamente di misure solo facoltative”, commenta Rinaldi. “Colpisce che per ottenere queste informazioni occorra recarsi di persona a Washington mentre la Commissione si è finora ben guardata dal riferire questi sviluppi americani e non mai ha evocato la possibilità di un accordo non vincolante che di fatto ridurrebbe radicalmente il senso di Acta”.