La pellicola di Daniele Vicari ripercorre la notte della sanguinosa irruzione della polizia nella scuola genovese. L'operazione che si è trasformata in un massacro degno di una dittatura
Il G8 è finito, ma c’è ancora qualche anonimo conto da regolare. Il bilancio è in passivo. Bisogna rimediare. I loro capi avvertono i superiori: “Non li teniamo più i ragazzi”. E complici, abbandonano i manovali al dialetto: “Mò s’annamo a divertì” e al lavoro sporco. Ai tempi supplementari in cui si infanga la divisa e impuniti, ci si spoglia della pietà. Anche se dalla “macelleria messicana” (come alla fine, soltanto nel 2007, uno dei protagonisti del blitz, il Vice-questore aggiunto Michelangelo Fournier si decise ad ammettere in aula) sono passati 10 anni e certe ferite non si rimarginano.
“La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale”, secondo Amnesty arriva al cinema e lo fa con la straordinaria forza dell’inedito. Abusi, pestaggi, violenze, urla e sadiche violazioni da dittatura sudamericana diventate ora con Diaz, già premiato dal pubblico di Berlino, un film eccezionale. Gli agenti che hanno giurato fedeltà alla Repubblica dovrebbero liberare un edificio dal “blocco nero” che ha devastato la città, ma sono nervosi ed eccitati. Incontrano un giornalista sulla porta. Sventola il tesserino. Lo accerchiano in venti. Lo lasciano a terra. “Sei un block-bloc”. Bastonate e calci in faccia. Poi risalgono le linee. Abbattono chiunque. Senza chiedere permesso.“Non li teniamo più i ragazzi”. Spaccano gambe, denti e teste di pensionati e ventenni capitati lì per caso. Caschi blu contro cittadini inermi avvolti nel sacco a pelo. Tedeschi, spagnoli e finlandesi chiedono aiuto.
Radiografia di un potere. Fuggono per le scale e cercano scampo nei cessi o nelle aule. Inseguiti, trovano l’inferno. “Non li teniamo più i ragazzi”. In dieci contro uno, brandendo il Tonfa (il famigerato manganello in dotazione alla Ps durante il G8) per il solo gusto di ascoltare il cupo suono della rivincita e dell’abuso di potere tardivo. Senza una logica, animati da una frustrazione che odia, morde: “Questo è l’ultimo G8 che fai, bastardo” e offre ai vampiri in divisa sangue che nessuno potrà lavare.
Diaz è un atto d’accusa di oltre due ore per cui non le giustificazioni non bastano. Un’immersione senza apnea in cui gli occhi si costringono a guardare per mancanze d’alternative. Altri già hanno girato la testa. Continueranno. Accade quando i fatti superano l’immaginazione. Capita quando anche i racconti di chi ha subìto disegnano uno scenario troppo duro da sopportare. È successo davvero? Sì, è successo. Non nell’Argentina di Videla. Ma nelle vie borghesi di una città portuale, mentre i governanti dormivano nella zona rossa e qualche chilometro più in là, verso la collina, nella prigione di Bolzaneto andava in onda il secondo tempo di un horror di cui il regista Daniele Vicari offre un sunto sfortunatamente indimenticabile. Dando forma agli incubi. Accompagnandoli senza compiacimenti verso una riproposizione brutale, ma oggettiva dei fatti. Interpolando documento, memoria e finzione.
Sacrificando la materia alla realtà e l’indignazione allo stralcio da processo. Mai niente di simile prima d’ora nel panorama nazionale. Mai uno schiaffo così preciso al potere. Come era normale all’epoca di Rosi, Petri e Pontecorvo e come credevamo i produttori di casa nostra avessero definitivamente rinunciato a fare. Dopo aver ricevuto rifiuti, consigli a recedere, silenzi e alzate di spalle (Rai, Medusa, i colleghi) Domenico Procacci di Fandango ha scelto di finanziare Diaz – in uscita il 13 aprile – in prima persona (partecipazioni romene e francesi per Mandragora e La Pacte). Sette milioni di cui 400. 000 euro del Mibac. Pochi soldi, ma ben spesi questa volta anche se è prevedibile che il Parlamento (dopo aver affossato la commissione d’inchiesta sul G8) fingerà di indignarsi e le polemiche che hanno sfiorato in stagioni diverse La Prima Linea di De Maria o Acab di Sollima, sembreranno rugiada di fronte alla tempesta.
Il capo della Polizia Antonio Manganelli si è rifiutato di visionare la sceneggiatura. Vicari è pronto. Ha scelto di non mettere i veri nomi di poliziotti e manifestanti: “Perché carnefici e vittime sono comunque riconoscibili e in ogni caso, mai come in questa occasione, a contare sono i fatti e non le parole”. Non gli interessano “le ideologie” – in Diaz non ci sono tesi né bandiere stancamente trascinate – “ma le dinamiche che precedono un’azione”. Così senza artifici, troviamo psicologie, responsabilità e identità. Vincenzo Canterini, il comandante del settimo reparto di Roma che alla Diaz si distinse. “Liberiamo un manufatto occupato da pericolosi anarcoinsurrezionalisti”. Il “celerino” di destra, Fournier appunto: “Io con questi macellai non ci lavoro più” dice un bravo Claudio Santamaria, capace di indignarsi e di urlare “basta” ma non fino in fondo: “Lascia stare, facciamo colazione” sussurra a un collega sulla porta di Bolzaneto. Arnaldo La Barbera (Mattia Sbragia), arrivato per esautorare la polizia locale e i funzionari che chinano il capo senza apparenti reazioni: “Predispongo, predispongo”.
Anatomia di un massacro. E poi i gregari, i capifiliera, le comparse. Funzionali a un falso di Stato, a una bugia costruite con dolo. Le finte coltellate ottenute da un agente all’ingresso della scuola, con tanto di intervista commossa. O il carico di molotov surrettiziamente portato dentro la Diaz per poi orchestrare una conferenza brezneviana senza domande, risposte o dubbi. Vicari li ha covati e con la sceneggiatrice Laura Paolucci ha lavorato 2 anni. Un viaggio tra le carte e le diffidenze. Un percorso onesto. Lasciando sedimentare le emozioni in modo analitico. Escludendo alla radice la narrazione di tutto ciò (o quasi) che a Genova era avvenuto prima della Diaz (echi della morte di Giuliani appena accennati) ma non dimenticando la prima buona regola di ogni film riuscito. Circoscrivere il campo d’azione. Togliere anziché aggiungere. Rispettare la verità con la certezza dei dati.
Al di là di un complesso lavoro di regìa e di equilibrio in cui il personale trasmuta in universale, Vicari non ha aggiunto né inventato nulla. Ha assemblato tasselli, convinto che nella Storia, per dirla con Marc Bloch. “Le cause non si postulino, ma si cerchino”. Trasportando le testimonianze dal tribunale allo schermo e le preghiere delle vittime dall’oblìo all’eternità. Escluso Fournier, l’unico senza medaglie per gli “eroismi” genovesi tutti, ma proprio tutti gli altri poliziotti con le stellette coinvolti nel massacro sono stati promossi. Condannati per pestaggi o per “falso” come Francesco Gratteri allora capo dello Sco e passati ad altri importanti incarichi. Forse la Ps non è e non sarà più quella della Diaz, ma il film di Vicari è qui per questo. Per impedire che i fantasmi ritornino, le zone d’ombra ingialliscano e in una questura italiana, sotto il ritratto del presidente, si possa ancora ascoltare una nenia: “Un, due, tre, viva Pinochet” così simile al suono triste delle canzoni di Pietrangeli: “Eran 1. 000 scalmanati / noi 200 baschi blu / son bastati due o tre morti / non si son sentiti più”.