Mi voleva prestare i suoi guanti. Ho conosciuto Patrizia Moretti in piazza, davanti alla cattedrale. C’era il freddo intenso e umido del gennaio ferrarese. Era uno dei tanti sit-in a cadenza settimanale per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla morte del figlio. Il caso di Federico Aldrovandi era già rimbalzato sulle cronache nazionali dopo l’apertura del blog. Da allora e per molti mesi, ogni mercoledì, Patrizia e gli amici di Federico si trovarono in piazza con foto, giornali, volantini.
Quel giorno di inverno 2006 stavo registrando sul taccuino le parole che Patrizia da lì in avanti ripeterà fino allo sfinimento: “siamo qui per chiedere verità e giustizia per Federico”. Io scrivevo a mani nude. Biro e blocknotes. Mi sono fermato perché mentre parlava le si era strozzata la voce nel ricordare il sangue attorno al corpo del figlio, ormai cadavere, sul lettino della morgue. Si asciugò le lacrime e mi chiese se volevo prendere i suoi guanti. Provai un senso di imbarazzo.
In quei giorni la verità ufficiale sulla morte del ragazzo di 18 anni parlava ancora di malore. Il questore di allora, Elio Graziano, si era da poco affrettato a difendere l’operato delle forze dell’ordine. La vicenda era approdata in Parlamento, con il ministro Giovanardi che parlò per la prima volta di due manganelli rotti nella colluttazione. Vennero quindi le perizie e, a marzo, l’iscrizione nel registro degli indagati dei quattro agenti intervenuti il 25 settembre in via Ippodromo, dove morirà Federico. Quell’atto venne firmato dalla pm Mariaemanuela Guerra, cui era affidato il fascicolo, che subito dopo lasciò “per motivi personali e famigliari” dovuti a un’inchiesta per droga che vedeva coinvolto il figlio del magistrato.
Da quel momento il caso Aldrovandi ha vissuto vari processi e inchieste parallele. Il capitolo principale, quello che vede i quattro poliziotti condannati in secondo grado per omicidio colposo a tre anni e mezzo, si chiuderà a giugno davanti alla Cassazione. In mezzo patrizia Moretti dovrà affrontare altre prove. Già querelata da uno degli agenti, ora si vede imputata per diffamazione aggravata. Ad accusarla è la stessa pm che per prima si occupò della vicenda.
Con lei ci sarò anch’io. Non come giornalista questa volta. Ma come imputato. La pm Guerra mi accusa di aver “intenzionalmente leso il suo onore e la sua professionalità”. Questo per un articolo pubblicato sulla “Nuova Ferrara”, quotidiano locale di cui ero collaboratore, che riporta le parole di Patrizia: “al 16 gennaio le indagini erano a zero”. Per inciso il giudice d’appello scriverà anni dopo, nelle motivazioni della sentenza di condanna dei quattro agenti, che le indagini furono “iniziate nella sostanza vari mesi dopo i fatti e in seguito alla sostituzione del primo sostituto procuratore”. Con me ci saranno i colleghi Daniele Predieri, cronista di giudiziaria della “Nuova”, e il suo direttore Paolo Boldrini. Il magistrato si è costituito parte civile, chiedendoci un risarcimento danni di 300mila euro. La pm Guerra ha risparmiato Patrizia, che dovrà “solo” affrontare il processo contro l’accusa pubblica.
In questo scenario si inserisce un dettaglio non trascurabile. E riguarda proprio quell’articolo che mi vede comparire in giudizio con la qualifica di “imputato” (quindi dopo un primo vaglio del pm mantovano che ha ritenuto valida l’accusa e chiesto il rinvio a giudizio e dopo l’accoglimento della richiesta da parte del gip di Mantova – città dove viene stampato il quotidiano). Quel pezzo l’ha scritto un’altra persona. Con tanto di firma, Alessandra Mura, ben visibile nelle carte sottoposte ai protagonisti di questa singolare vicenda. A convincere i magistrati non è servito nemmeno che il collega dichiarasse esplicitamente di esserne il recensore. Niente. Il mio rinvio a giudizio è stato giustificato con la possibilità che “Alessandra Mura” potesse essere uno pseudonimo utilizzato dal sottoscritto.
Per giovedì, salvo rinvii, si terrà davanti al giudice la prima udienza del processo. Processo che, salvo un perpetuarsi del castello kafkiano, mi vedrà uscire dal banco degli imputati. Alla sbarra rimarranno i colleghi, ai quali la pm chiede inoltre un milione e mezzo di danni (causa intentata in sede civile contro il giornale). E alla sbarra rimarrà Patrizia, madre orfana del figlio e ora imputata con l’accusa di aver diffamato la prima pm. In quell’aula ci sarà freddo. Non un freddo atmosferico, sia chiaro. Spero che quel paio di guanti – che conservo ancora – possano portarle un po’ di calore.