Sei a Cagliari, nella parte più alta della città, in cima al colle di San Lorenzo. Ci sei arrivato percorrendo una salita tortuosa, dopo aver visitato la cittadella dei Musei, e poi un lungo viale alberato disseminato di panchine affacciate sull’anfiteatro romano e sui tetti della città. Hai un libro sotto il braccio e una mezza bottiglia di minerale. Nella luce fresca del tardo pomeriggio ti fermi a guardare un edificio. È una specie di fortezza, con quattro garitte ottagonali coperte da cupolette a spicchi e imponenti mura di cinta che lo rinserrano da tutti i lati.

È il Buoncammino, il carcere, un nome che ti risuona dentro come un sermone. Non puoi immaginare che abbiano costruito un carcere in un posto così, su un viale in cui soffia un vento docile e profumato e dove incontri universitari che amoreggiano e turisti che si riposano dopo aver scalato il quartiere di Castello.

Hai un po’ di tempo a disposizione prima del tramonto, e ti avvicini costeggiando le mura. All’improvviso senti una specie di richiamo, voci piene di sentimento, grida a tratti esasperate, e vuoi guardare, capire. Ti trovi di fronte a una scena che serberai nella memoria per molto tempo. Sulle prime pensi che sia un sit-in, ci sono donne che invadono un grande spiazzo di terra a ridosso del carcere, bambini dalle facce confuse, che forse vorrebbero dileguarsi, andare a giocare a pallone, e che invece sono costretti a stare là con le loro madri.

Queste donne portano appese al petto le foto di famiglia, alzano lenzuola coperte di scritte fatte con lo spray, le loro grida dall’inflessione cagliaritana fortissima hanno una gravità monotona. Più in là, distaccati, alcuni gruppetti isolati di ragazzine urlano all’indirizzo dei detenuti, sollevano bambini piccolissimi, li mostrano ai compagni reclusi. È una forma di comunicazione che sembra arrivare da un altro tempo, un momento privato che deve essere vissuto pubblicamente per cause di forza maggiore.

Raccontano così le loro giornate, cercano di restituire ai mariti un’idea vaga, un’impressione, di come sia la vita fuori dal carcere. Alcune di loro arrivano a raccontare l’intimità perduta, si agitano, si toccano i capelli, cercano di apparire desiderabili anche così, cercano di farsi ricordare, tra le loro frasi a volte spuntano parole oscene che descrivono una forma di amore prepotente e feroce.

Fa effetto vedere come nell’era della comunicazione globale queste donne siano costrette ad adoperare un linguaggio così antico e plateale per parlare coi loro cari. Non succede solo a Cagliari, ma anche in altre carceri italiane, e succede da sempre, è una consuetudine testimoniata già da certi vecchi film in bianco e nero. A parte questo, raramente se ne parla. Eppure anche loro, pur non avendo debiti con la giustizia, scontano una pena, si portano addosso un pezzo di galera. Sono lì, dall’altra parte delle sbarre, magari perché una sola ora di visita non basta, o perché a parlare sotto lo sguardo di un agente di polizia penitenziaria non c’è la stessa intimità che trovano, invece, nel confidarsi urlando a voce piena tra la polvere di un terrapieno.

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