Nel mondo globalizzato, quando succede qualcosa in una parte del mondo si produce automaticamente una reazione da un’altra parte.
E’ la versione pratica della teoria del caso descritta dal personaggio di Michael Crichton, il matematico Ian Malcolm (ma la frase non è sua): quando una farfalla sbatte le ali a Pechino e a New York arriva la pioggia anziché il sole.
Così, quando a San Pietroburgo le autorità decidono di vietare la “propaganda dell’omosessualità”, imponendo una multa fino a 12.000 euro per i colpevoli, anche la comunità LGBT (lesbian, gay, bisexual, transgender) italiana fa sentire la propria voce.
Si sono moltiplicati infatti gli appelli e le manifestazioni di solidarietà alla comunità LGBT russa e, parallelamente, di condanna per il provvedimento, il quale definisce la propaganda come la “diffusione mirata e senza freni di informazioni in grado di mettere a repentaglio la salute e lo sviluppo morale e spirituale dei minori, incluse quelle che potrebbero creare un’immagine distorta dell’equivalenza sociale fra relazioni coniugali tradizionali e non”, vietando tutte le “azioni pubbliche, volte alla promozione della sodomia, del lesbismo, della bisessualità e del ‘transgenderismo’ tra i minori”.
Una legge siffatta censura direttamente, e senza possibilità di appello, chiunque voglia parlare in pubblico dell’omosessualità o del transessualismo, trasformando le persone LGBT in una comunità invisibile.
Si tratta di una misura illegittima. Essa disintegra il pluralismo e si pone in diretto contrasto con l’art. 10 della Convenzione europea dei diritti umani, che garantisce il diritto alla libera espressione del pensiero, una norma che già in passato era stata invocata contro la Russia proprio con riguardo al Gay Pride di Mosca. La Russia aveva sostenuto che vietare il Gay Pride era legittimo, perché se non l’avesse fatto gli ortodossi avrebbero caricato i manifestanti: era quindi a protezione dei gay che il governo aveva deciso di rinchiuderli in casa.
Per la Corte europea dei diritti umani, invece, censurare il Gay Pride significa mettere il bavaglio alla libertà di esprimere il proprio pensiero. Non esiste giustificazione a questa misura.
Probabilmente con il provvedimento di S. Pietroburgo avverrà la stessa cosa. Esso finirà alla Corte europea, che lo dichiarerà illegittimo alla luce della Convenzione. E intanto passerà del tempo, vi saranno delle multe, delle proteste, delle reazioni dell’autorità. Probabilmente avverrà, come in passato, che qualche prete ortodosso o qualche anziana signora benediranno i luoghi di raduno degli attivisti LGBT della città a colpi di acqua santa.
Al di là degli aspetti giuridici o formali della questione, ciò che inquieta è l’effetto che tale provvedimento avrà: i ragazzi e le ragazze di S. Pietroburgo non oseranno parlarsi, non oseranno svelarsi, rinunceranno a dichiararsi e se ne staranno nascosti, invisibili. Percepiranno se stessi come una disfatta, vedranno il proprio futuro buio e senza scampo. Non c’è cosa peggione che nascere e crescere in una società che ti odia per quello che sei.
Ironia della sorte, il provvedimento viene giustificato come misura di protezione della società dal “morbo dell’omosessualità”. Fino a quando continueremo a disintegrare le minoranze in nome della protezione della maggioranza?