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Fuori Gioco, la casta<br> del calcio

Chi è senza casta, scagli il primo pallone. All’oligarchia dei bramini della politica, per Rizzo e Stella ‘Insaziabili e intoccabili, se ne aggiunge un’altra, avida del pathos dei tifosi, alchemicamente trasformato in potere. Si tratta di una sanguisuga autoritaria nascosta dentro e fuori gli stadi, utilitaristica prima, durante e dopo la partita. Si dirà: è la scoperta dell’uovo di Colombo, dov’è la novità? Certo, che calcio e potere corrano di pari passo, in tandem scorretto sul filo del fuorigioco, lo si è sempre saputo, in Prima come in Seconda Repubblica. Solo che l’ultima inchiesta di Gianfranco Turano è molto più di un libro inquirente sul calcio.

E’ una (dettagliata) mappatura di notizie urticanti. E’ la casta del calcio disegnata nella (diabolica) stanza dei bottoni dello sport più amato (e chiaccherato). E’ un saggio coraggioso che varca l’inviolabilità degli spogliatoi, spiattellando i curricula di scaltri proprietari di maglie sudate e di patron di storici marchi per bandiere, affaccendati nel calciomercato come in interessi più o meno occulti. Non c’è dietrologia, né demagogia populista in “Fuori Gioco, calcio e potere. Da Della Valle a Berlusconi, da Preziosi a Moratti. La vera storia dei presidenti di Serie A”, edito Chiarelettere. E’ la biografia investigativa di dieci presidenti del massimo campionato, dall’american style DiBenedetto, il latinista Lotito, al Re dei supermercati Zamparini. Un colpo al cuore per chi ignora (o finge di ignorare) su quali campi Andrea Agnelli e Aurelio De Laurentiis giocano le loro sfide al vertice, tra Fiat, banche d’affari, Euro Bingo e Cinepanettoni. Una tempo regnava il mecenatismo dei Costantino Rozzi, Umberto Lenzini e Romeo Anconetani, istrioniche caricature bonarie di un calcio tramontato, certamente meno scandalistico e più a misura d’uomo, quando i forzieri dei club venivano foraggiati di tasca propria, fino all’ultima lira di famiglia, per amore e senso d’appartenenza al casato. Oggi imperversa invece la casta, un meccanismo di scatole cinesi senza fondo, un rompicapo per procure e agenzia delle entrate, costrette a monitorare bilanci, ricapitalizzazioni in borsa, lobby affaristiche, politica parlamentare, patti parasociali e appalti pubblici tra inganni e palle avvelenate. Calcio come ultima frontiera del capitalismo estremo, calcio come giocattolo delle multinazionali, significa lo scivolo sociale per accedere ai salotti buoni della gente che conta, dove sogni di vittoria e antropologia culturale del tifo svaniscono nell’incubo di una cruda e sprezzante realtà. Descritta così, a gamba tesa e senza sconti.

Il calcio è potere allo stato puro perché in campo conta solo vincere. Il potere è attratto dal calcio per due motivi: perché vuole trasformarlo in un impresa economica come le altre e ottenere una legittimazione pubblica (…) Chi entra nel football professionistico al massimo livello ha la certezza di conquistare la notorietà”. Per l’autore, detenere una squadra italiana equivale a fregiarsi di una formidabile legittimazione politica e istituzionale, altrimenti difficile da raggiungere. Una tesi senza deroghe, suffragata da notizie, sentenze, processi, intrecci e fatturati plurimilionari, come sintesi di immunità e garanzie tra Transatlantico e Opus Dei. C’è n’è per tutti, nessuno escluso.

Leggendo “Fuori Gioco” ci si resta male, ma fa bene principalmente ai tifosi, inesauribile forza nell’ingranaggio del sistema. Fa male perché, alla luce dei fatti, rattrista (non poco) sapere di aver gratuitamente offerto all’immaginario Dio Pallone lo spontaneismo passionale di tante domeniche al cardiopalmo (tranquilli, ormai con lo spezzatino business si gioca ogni giorno), al netto di un pugno di poltrone, gestite sempre dai soliti noti. Fa bene perché capacitarsi del fatto che quei novanta minuti (più recupero) siano ostaggio di una casta senza scrupoli, razziatrice di cuori con arditi furti aggravati dalla premeditazione, può servire ad evidenziare criticità al limite della decenza, stimolando l’avvento di tempi (non solo eticamente) migliori. “Il tifo è una malattia – scrive Turano – e con le malattie c’è chi muore e chi si arricchisce. I presidenti di serie A ripetono da anni la litania che il football li rovina, che i calciatori guadagnano troppo, che lo Stato non fa abbastanza per i club. O è vero e allora dovrebbero essere interdetti per incapacità di intendere e di volere. Oppure è quasi sempre falso e in Italia possedere una squadra di serie A è ancora una chiave che apre le porte, conquista indulgenze e garantisce potere”. Secondo me, non è buona la prima, ma l’ultima.