Aldo Busi contro Lucio Dalla. Busi colpisce ancora, e ancora una volta lo fa a cadavere appena tiepido. Colui che in un’intervista si è definito il più grande scrittore di tutti i tempi, non ha perso occasione per potersi distinguere dal coro quasi unanime di chi oggi piange Lucio Dalla. L’autore di Seminario sulla gioventù ha così messo a segno l’ennesimo assolo in controtendenza, che di certo saprà regalargli un altro minuto di notorietà.

Con un intervento pubblicato sul blog Altriabusi, subito ripreso da altri siti, e intitolato “Su Lucio Dalla e sugli scomparsi ad arte già in vita“, lo scrittore di Montichiari dice la sua su un tema molto delicato e affascinante: se di un artista conti di più l’opera o la biografia. La conclusione di Busi è ben dichiarata sin dall’inizio del pezzo: “Conta di più la vita o l’opera? L’opera, se la vita ne è la superflua coerenza. Se la vita non è coerente con l’opera che produce, il dibattito resta aperto, ma non per me: non conta né l’una né l’altra […] Quindi, via, giù nell’imbuto dell’oblio delle cose che ne nascondono troppe altre per non appartenere più alla fogna dell’arrivare con meno problemi al ventisette del proprio mese.”

Nessuna pietà, dunque, per Lucio Dalla: il Tribunale Post Mortem dell’Inquisizione Busiana ha emesso sentenza di condanna all’oblio: “Ho sempre pensato che Lucio Dalla fosse un checchesco buontempone, un chierichetto furbastro […] e non basta la morte per cancellare la magagna del gay represso cattolico (represso alla luce del sole, il che non ne inibisce certamente il godimento tra le tenebre della vita privata, anzi, le implementa, come ben si sa) che si permette tutte le scorciatoie di comodo […] pur di non prendere la strada maestra più sensata della basilare affermazione di sé, anche se più accidentata.

Aldo Busi non è affatto nuovo a questo genere di sentenze post mortem. Il suo Tribunale, infatti, si è specializzato in attacchi molto meno nobili di quello che rese celebre Fabrizio Maramaldo, il quale, almeno, uccise un uomo ferito e inerme, ma non già bello e composto nella bara. E’ un Tribunale particolare, quello di Busi, che si attiva solo nei confronti di quegli artisti che hanno avuto il cattivo gusto di far parlare una nazione di sé sia da vivi che da morti, e il tutto senza rendere grazie alla somma opera del maestro di Montichiari. Nel 1992, pochi mesi dopo la morte di Pier Vittorio Tondelli, Busi infilò la sua banderilla sul cadavere dello scrittore-avversario, già tumulato nel piccolo cimitero di Canolo, tramite un articolo pubblicato su Babilonia in cui si legge: “[Tondelli] si è perso nelle pastoie del cattolicesimo, e del senso di colpa, esattamente come chiunque altro, e il messaggio che lancia non è granché, né nelle sue opere né nella sua morte; tant’è vero che, come una checca velata qualsiasi, non muore di Aids, ma muore irreparabilmente di vergogna.”

Non tutto ciò che dice Aldo Busi è sbagliato: anche io, come lui e Joseph Hansen, penso che “un Dostoeveskij che non accenna alla sua epilessia o alla sua dipendenza dal gioco” non sarebbe arrivato lontano. Il punto è che tanto Lucio Dalla nelle sue canzoni (da Disperato erotico stomp in avanti) quanto Tondelli nei suoi libri, hanno fatto qualcosa di più che “accennare” alla loro omosessualità, alla loro diversità, perfino – nel caso di Tondelli – alla sua sieropositività, se è vero che in quel capolavoro che è il romanzo del suo commiato, Camere separate, il riferimento all’Aids è implicito ma inequivocabile. E, maestro Busi: non credo sia necessario essere critici letterari o aver studiato per capire quanto Lucio Dalla e Pier Vittorio Tondelli abbiano “accennato” alla loro omosessualità, alla loro diversità, alla loro resistenza umana tramite il loro talento artistico.

Mi si dirà: ma Lucio Dalla si era avvicinato all’Opus Dei. Può darsi: le vie del masochismo italico sono infinite, e in questo senso la svolta mariana di Renato Zero è l’emblema di quanto campioni d’incoerenza si possa diventare all’interno di una sola, piccola vita. Il punto è che c’è un modo e un tempo per muovere le accuse che muove Aldo Busi, e quel modo e quel tempo Busi li ha marchianamente sbagliati.

Se Busi intendeva lanciare il suo j’accuse contro il velatismo e baciapilismo di Dalla, o contro la forse eccessiva riservatezza con cui Tondelli nascose la sua sieropositività all’Hiv, doveva farlo quando Dalla e Tondelli erano ben vivi, e in grado di rispondere, non dopo. Ma, naturalmente, facendo così Busi si sarebbe esposto a una risposta, a un dialogo, e non avrebbe avuto il minuto di notorietà che invece si è guadagnato con questo monologo macabro e vile.

Infine: siamo proprio sicuri che partecipare al reality L’isola dei famosi o a una trasmissione con Barbara d’Urso sia un esempio di cristallina coerenza per “il più grande scrittore di tutti i tempi”? Com’è che proprio non riesco a figurarmi al posto di Busi, sul trespolo di fianco alla d’Urso, un qualunque Hemingway, un anonimo Primo Levi, un ignobile Pasolini, un misero Dante? Se il Tribunale dell’Inquisizione Busiana emette sentenze di oblio per incoerenza solo post mortem, chi penserà a emettere la stessa sentenza per Aldo Busi, quando sarà morto?

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