Immagino che il dibattito accenda la fantasia in misura minore rispetto al TAV, anche perché fortunatamente qui si parla di bagattelle. Ma occupandomi di quelle, vi vorrei far perdere 5 minuti raccontandovi di tale Lebron James, giocatore di basket dei Miami Heat. Venerdì scorso contro Utah il predetto ha preso questa decisione: sotto di 1 punto a pochi secondi dalla fine, passare la palla ad un suo compagno (Udonis Haslem) perché da lui ritenuto più libero. Haslem ha sbagliato il tiro (che se segnato avrebbe probabilmente dato la vittoria agli Heat) e un torrente di critiche ha investito James. Critiche basate soprattutto sull’asserita incapacità del predetto di prendersi le proprie responsabilità nel momento topico, già conclamate in occasione di un paio di Finali NBA (2007 e 2011).
(Buonissima) parte del ragionamento è basata sulle rispettive buste paga dei protagonisti. Sappiamo infatti, già che in USA gli stipendi sono pubblici, che in questa stagione il James intascherà per le sue prestazioni 16 022 500 dollari e l’Haslem “solo” 3 780 000. Ragion per cui, prosegue il ragionamento, tocca a chi è pagato di più prendersi il tiro decisivo, come ben hanno dimostrato i grandi del passato (da Michael Jordan in su e giù). Lasciamo da parte le opinioni tecniche (la mia è che il passaggio sia stata scelta di rara efficacia e che abbia sbagliato Haslem a non farne un altro per un compagno che sarebbe stato solissimo), il racconto dell’eroico quarto periodo di Lebron nella gara in questione e i numerosi esempi del passato in cui i grandi cedono ai gregari il tiro decisivo. E soffermiamoci un istante sull’aspetto della comunicazione. Sarà forse perché oggi mi sono imbattuto in questo folgorante documento di Danilo Dolci, che mi ha fatto riflettere tantissimo. Ma credo che tutti noi dovremmo cercare di rifuggere da alcune tentazioni indotte da quello che normalmente si definisce bombardamento mediatico.
La primissima è relativa alla personalizzazione, e quindi semplificazione, di tutti gli argomenti. La reductio ad unum, o con James o contro, in questo caso non tiene conto, ad esempio, dei 47 minuti e 55 secondi precedenti, che hanno avuto più impatto sul risultato finale di una singola giocata. E che si debba parlare solo e soltanto di lui perché è un fenomeno mediatico (?!?) rappresenta un corto-circuito dal quale dovremmo rifuggire (sui pericoli, state con il grandissimo Dolci). La seconda attiene ai limiti che abbiamo nell’investigare dall’esterno dei fenomeni di cui fatalmente non conosciamo elementi decisivi. James, il suo allenatore e tutti gli Heat non possono e non devono raccontarci la verità. Noi possiamo e dobbiamo cercarla, sempre però ricordandoci che non sarà così semplice ed univoca come ci piacerebbe. Terzo, chiedere a tutti un parere su tutto non è sempre una buona idea. Anzi è cattiva quanto quella di mutuare pari pari l’opinione di uno o più “esperti”. Le opinioni sono tali se quelle degli altri contribuiscono a formare la tua, non se la sostanziano integralmente. Quarto, bisognerebbe sempre ricordarsi di tenere la barra dritta e non farsi dettare l’agenda dal bombardamento di cui sopra.
Se discutiamo dell’episodio di Salt Lake City, dobbiamo farlo in maniera rigorosa. Che un mese od un anno prima James abbia rifiutato altri tiri, c’entra il giusto. Che guadagni 16 o 32 milioni di dollari, idem. Che Michael Jordan sia stato più forte e decisivo di lui, pure. Se parliamo di un fatto, prima dobbiamo conoscerlo, poi cercare di capirlo e quindi, se ne siamo in grado, giudicarlo. Almeno credo, perché io solo di dubbi vivo.