Capita a volte di riversarsi ciondolanti per i supermercati, abulici e privi di meta, e di incocciare, tra le pile meravigliosamente incolumi delle opere di Salvo Sottile, in libretti logori e impolverati, ivi giacenti da anni nell’indifferenza dei consumatori, capaci di celare inattesi capolavori immortali.
È il caso di un tomo Newton Compton che alcuni fortunati potrebbero ancora scovare al prezzo di un Harmony di seconda mano: Un uomo da rispettare di Naguib Mahfouz.
Giornalista, filosofo e drammaturgo, nato nel 1911 al Cairo dove visse novantacinque anni, di tutti gli scrittori arabi Mahfouz è il più grande e celebrato , nonché l’unico ad aver vinto il Nobel nel 1988 “per aver creato un’arte narrativa araba che si adatta all’intera umanità”. Nei paesi anglofoni lo si studia nelle università, in Italia è noto a qualche over 35 che ebbe il buon senso di andarselo a leggere dopo la consegna del Premio. Per il resto, è uno dei maestri da ripescare nel mare della dimenticanza.
Ma veniamo al libro. Othman Bayyumi (il protagonista) è un arrampicatore sociale di talento, poliglotta e di penna eccelsa; un servo dello Stato religiosissimo e astemio, ligio al dovere, tenacemente insensibile al richiamo peccaminoso della carne, follemente timorato di un amore che possa sviarlo dalla rettitudine innalzata a cemento e sudore verso la Grazia Eterna. La sua vita è leopardiana sofferenza adornata dal cilicio: una stanza buia e fredda irradiata sporadicamente dal calore di Qadriyya, prostituta nera, bruttina e oppiomane, unica compagna di una vita alla ricerca dell’infelicità (“Nella tristezza l’uomo si purifica e predispone alla gioia divina”).
Sgobbando come un mulo ai gradi più infimi dell’archivio statale, Othman si paga gli studi in Legge, laureandosi ampiamente al largo dalla soglia anti-sfigati. Spinto da voglie di rivalsa instillategli dalle origini miserrime di cui mai finirà di vergognarsi, sacrificherà ogni cosa alla carriera istituzionale: gli affetti, la sposa ideale, le risposta salvifica al quesito che lo martella incessante: sono felice?
L’ironia, l’assurdo sotteso a questo “Bildungsroman senza Bildung”, come l’avrebbe chiamato Edmondo Berselli, risiede nella palese illogicità del progetto di vita di Othman; nell’assenza di un fine pratico che giustifichi le sue aspirazioni. Nulla gli interessa: né denaro, né donne, né potere. Come il Giuseppe Corte del racconto Sette Piani di Dino Buzzati, Othman perde la sua partita ossessionato dal desiderio di un miglioramento qualsiasi. Riducendo l’intera esistenza a un pallottoliere in scala di grigi.
Quando infine, trafitto dalla lama del tempo, perviene al grado di Direttore Generale dell’Amministrazione – divenendo Sua Eccellenza -, quel senso di sconfitta che aleggia ineluttabile sin dalle prime battute implode su se stesso, generando nel lettore qualcosa di molto simile a un cordoglio. Il successo di Othman coinciderà infatti, in modo significativo, con l’acquisto di una tomba di lusso in cui consegnare per sempre se stesso e la sua famiglia a un’agognata, indiscutibile rispettabilità.
È stata una vita ben spesa? Sta a noi deciderlo. Mahfouz non giudicherà mai al posto nostro. Di qui la sua bravura, e la necessità di riscoprirne l’opera: rifugge ogni certezza, infondendo il dubbio. Lasciandoci la sensazione, a fine lettura, di aver colto qualcosa in più di quella madre premurosa e crudele che è la nostra vita.
Luca Lopardo