Vi sono vaste crepe nell’ottimismo ufficiale secondo cui grazie al patto europeo sul rigore fiscale firmato venerdì scorso da 25 paesi dell’Unione e (soprattutto) grazie al trilione di euro generosamente concesso dalla Bce alle banche, il peggio della crisi sia superato e si possa guardare con ottimismo al futuro. Il problema greco (che è il sintomo più grave, ma non l’unico della crisi europea) non è però risolto.
L’unica cosa certa è che la struttura produttiva e sociale è sull’orlo del collasso e non può sopportare ulteriori dosi della terapia d’urto cui viene sottoposta da tre anni, il cui unico effetto è stato quello di far aumentare il debito pubblico dal 113 al 163 per cento del Pil. Ma c’è di più, perché il pacchetto di misure che è stato concordato nelle settimane scorse per dare il via libera alla tranche di 130 miliardi del programma in corso (e per favore, almeno non chiamateli “aiuti”) è ancora privo di un tassello importante, quello dell’assenso dei creditori privati.
Ai titolari di bond greci per un valore di 206 miliardi di euro, è stato proposto di aderire “volontariamente” a uno scambio con nuovi titoli, che mira a ridurre il valore del debito greco in essere di circa 100 miliardi. Una soluzione tanto drastica quanto tardiva, che comunque venerdì ha già comportato il declassamento della Grecia da parte di Moody’s al livello C, l’ultimo gradino prima del default vero e proprio, cioè dell’evento che si cerca a ogni costo di evitare perché come in un disastro nucleare nessuno – a cominciare dai regolatori bancari – è in grado di sapere quali reazioni a catena si produrrebbero per le banche e per l’economia reale. Ma per evitare di entrare in un terreno che potrebbe avere conseguenze disastrose per le banche si è costruito un accordo tecnicamente molto complesso, che per essere ratificato deve raccogliere il 75 per cento dei consensi, il risultato si conoscerà oggi, ma già ieri sera Atene annunciava un’adesione superiore all’obiettivo.
Con una capriola legale, la Grecia ha introdotto unilateralmente nei titoli già in essere la possibilità di attivare una “clausola di azione collettiva” per imporre lo scambio anche a chi non ha aderito. E qui si aprono scenari più inquietanti, perché a questo punto diventerebbe inevitabile dichiarare il default vero e proprio, attivare i derivati che assicurano il credito (i cosiddetti Credit Default Swap) e dunque aprire il vaso di Pandora degli oscuri meccanismi dentro il sistema creditizio che si vuole invece tenere accuratamente sigillato. Ciliegina sulla torta: con una capriola legale ancora più ardita, le tre istituzioni che hanno gestito il programma greco (Fmi, Unione europea e Bce) hanno ricevuto un trattamento privilegiato rispetto agli altri creditori. Semplicemente, i titoli greci in loro possesso sono stati sostituiti da nuovi titoli speciali e lo swap di cui sopra si applica solo a quelli emessi prima del gennaio 2012. Anzi, questo comporta per la Bce un profitto (sulla carta, si capisce: stiamo parlando di finanza) perché ovviamente i titoli nuovi valgono più di quelli vecchi, che viene girato alle banche centrali nazionali per fornire loro ulteriori armi di aiuto alle loro banche in difficoltà.
Insomma: stiamo tenendo il fiato per l’esito di un programma complesso e incerto, che a tutto servirà tranne che a risolvere il problema dell’economia greca e neppure di quella europea. Già circolano stime secondo cui non solo la Grecia, ma anche il Portogallo avranno presto bisogno di un altro ciclo di interventi, sempre spacciati per “aiuti” perché è bello far leva su sentimenti nobili. Perchè allora montare un meccanismo così complesso? Semplicemente, per consentire alla Grecia di coprire il suo fabbisogno finanziario fino al 2014, senza ricorrere al mercato. Come ha documentato il Sole 24 Ore, con 176 miliardi (cioè con i 130 attuali e il completamento dei fondi stanziati nel 2011), la Grecia sarebbe in grado di fronteggiare tutti i suoi impegni del triennio, compresa una ricapitalizzazione delle banche per 50 miliardi. E dopo? È difficile pensare che ci si aspetti che a quel punto la Grecia sia risanata e i sottoscrittori privati di titoli accorrano nuovamente festanti.
Lo stesso Financial Times ha scritto che il governo greco sta tagliando il ramo su cui è seduto. È più probabile che ci si attenda che a quel punto l’economia europea e il suo sistema bancario siano più robusti e in grado di assorbire meglio l’impatto di un evento traumatico collegato alla Grecia o a qualche altro piccolo paese periferico. Dimenticando però di avviare le riforme necessarie per mettere sotto controllo i settori del credito (come i derivati e in particolare quelli sul rischio di credito) che oggi fanno tanto paura proprio perché totalmente sconosciuti e incontrollati. Perché fra tre anni dovrebbero fare meno paura, se continueranno a operare come oggi? Poiché la politica europea non è in grado di prendere decisioni se non quelle del rigore fiscale e poiché di regolamentare più rigidamente le banche non si parla più, va quindi bene a tutti di spostare un po’ in là nel tempo il problema del debito greco e lasciare che la Bce con interventi eccezionali inondi di liquidità il mercato per favorire le banche nell’immediato e attendere che queste sostengano una ripresa economica ancora di là da venire. Qui non è questione di essere ottimisti o pessimisti, è proprio il gioco del dare e dell’avere che non torna.