Mamme senza lavoro (e senza contratto) per sostituire le dipendenti della grande distribuzione nei giorni di festa. Il progetto pilota è della Provincia di Lecce. La Cgil punta il dito contro: "E' un impiego a cottimo mascherato"
L’idea è figlia del dibattito rovente sulle aperture domenicali e sul sovraccarico dei dipendenti della grande distribuzione. Tutto nasce da lì. “Molte donne mi hanno confessato di essere sul punto di mollare il proprio posto di lavoro. Impossibile non avere un attimo per sé e per i figli ed essere impiegate sette giorni su sette”. E’ stata l’assessore provinciale alle Politiche sociali, Filomena D’Antini, ad architettare questo progetto pilota che, per il momento, è un unicum a livello nazionale. E’ arrivato primo in Puglia nell’aggiudicarsi l’assegnazione delle risorse messe a disposizione dal Dipartimento delle Pari opportunità con il pacchetto Sacconi- Carfagna del 2007. “Stiamo già suscitando l’interesse di altre realtà italiane, poiché questo è soprattutto un nuovo incentivo all’ingresso nel mondo del lavoro – ha detto Filomena D’Antini – In un periodo di crisi, meglio poco che nulla. Di fronte alle utopie, sono concreta: se i negozi devono rimanere aperti, così si può contemperare l’esigenza delle commesse che lavorano sempre e conciliano poco con quella di chi lavora poco e bada sempre ai figli. E poi si avrà la possibilità di acquisire nuove conoscenze, perché la Cisl e la Uil riceveranno 10mila euro a testa per svolgere corsi di formazione”. I centri commerciali, invece, si spartiranno il pacchetto di 65mila euro a loro disposizione.
Ma c’è chi tuona. E’ la Cgil, che da questo bando ha scelto di rimanere fuori. “I voucher di sostituzione non sono altro che lavoro a cottimo mascherato, cioè sfruttamento di chi è in una situazione di estremo bisogno e che, pertanto, si sottopone anche a condizioni inaccettabili. Se vogliamo eliminare il precariato, dobbiamo renderlo più oneroso, non più economico”. Antonella Cazzato, segretaria generale del sindacato a Lecce, ci va giù pesante: “Certo, c’è la crisi, ma in nome di questa crisi non facciamo che approfittare delle fasce più deboli. E poi ci chiediamo che cosa faranno quelle donne, che sono già in uno stato di povertà, sole, ragazze madri, inoccupate, straniere, se in una singola giornata di lavoro festiva o domenicale, dovranno anche provvedere a ‘piazzare’ i propri figli”.
La controproposta della Cgil, invece, mirava alla creazione delle “domeniche appetibili”, da fissare assieme alle associazioni dei datori di lavoro e da limitare al periodo delle feste e dei saldi. In tutti gli altri casi, la chiusura dei centri commerciali e il riposo per i dipendenti avrebbe dovuto essere obbligatorio. Il rischio che ora si intravede è quello di incentivare l’utilizzo di questa forma di prestazione a discapito dei contratti di lavoro part time o a termine, di certo più sicuri e ugualmente fattibili, se l’obiettivo reale è la tutela della conciliazione vita-lavoro. Di più. Il terreno è scivolo, tanto che si finirebbe con il fornire agli imprenditori, tacitamente, lo strumento per sostituire il personale che, per effetto di anzianità e professionalità, costa di più. Per capire questo, basta un dato, quello relativo alla contribuzione Inps, bassissima, addirittura al 13 per cento. Ma per comprendere la reale portata, bisogna guardare all’impennata dell’utilizzo dei voucher in Italia. Dall’agosto 2008 a gennaio scorso, stando ai dati dell’Inps, sono 27,9 milioni i buoni da 10 euro venduti. In testa alla classifica c’è da sempre il Veneto, che ha speso un settimo del totale, utilizzandolo soprattutto in agricoltura. Seguono Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte. In coda, le regioni del Sud, dove pure ci si aspettava un attecchimento maggiore, visto che questo strumento è stato concepito per far emergere il lavoro nero, che al contrario permane. Invece, il voucher ha avuto presa altrove. E questo lascia il dubbio se, effettivamente, non contribuisca a creare un’altra fascia grigia di precariato.