La decisione della Cassazione che ha annullato con rinvio la sentenza di appello che aveva condannato a 7 anni Marcello Dell‘Utri è stata accolta con comprensibile “sollievo” dall’imputato, evidentemente atterrito dall’alternativa del carcere immediato.
L’annullamento con rinvio, non significa assoluzione e nemmeno prescrizione certa, dato che il processo di secondo grado deve ricominciare a Palermo dinanzi ad altri giudici e la data fatidica di sicura impunità per decorso del tempo sembra che scatti non prima del 30 giugno del 2014.
Ovviamente gli avvocati difensori che che considerano il processo a carico di Dell’utri “inusuale” ed “eccezionale” hanno dichiarato anche a Il Fatto Quotidiano che mai e poi mai punteranno alla prescrizione e che si batteranno per ottenere l’assoluzione nel merito, anche se naturalmente non se la sono sentita di dire che il senatore abbia formalmente comunicato di rinunciarvi.
Al di là delle reazioni da copione stantio e da ossessione permanente che non possono nemmeno più stupire o indignare ulteriormente dopo la festa forsennata andata in scena per il Berlusconi corruttore prescritto nel processo Mills, ad impensierire sono soprattutto i prevedibili “effetti collaterali” che possono derivare da questa pronuncia.
In particolare nella requisitoria del procuratore generale Iacoviello, che si è già segnalato nel corso del tempo per lo zelo garantista nei procedimenti che hanno riguardato Andreotti, Mannino, Squillante, colpisce quello che appare come un affondo al concorso esterno in associazione mafiosa “diventato reato autonomo in cui nessuno crede più“.
E’ difficile, in una tale affermazione che è stata uno degli snodi della requisitoria, fatta propria dalla V sezione, non vedere latente il pericolo di una rinnovata offensiva, in nome di un garantismo che purtroppo non è (quasi) mai dettato da principi di civiltà giuridica, contro il reato di concorso esterno, l’unica fattispecie in grado di colpire la connessione tra “colletti bianchi” e criminalità organizzata.
Dare una spallata al concorso esterno, da tempo messo all’indice come reato “inventato”, di esclusiva derivazione giurisprudenziale, significherebbe di fatto ritornare alla mafia dei picciotti e della lupara e mettere la politica al riparo dal controllo di legalità sul fronte più dirompente e delicato delle contiguità e delle “sinergie”.
E fin dove i rapporti tra pezzi dello Stato e rappresentati della mafia possano spingersi, in questo caso anche al di là di singole fattispecie criminose, lo sta rivelando proprio in questi giorni il processo sulla strage di via D’Amelio e la trattativa del ’92, grazie anche al contributo determinante di Gaspare Spatuzza che nel processo a Dell’Utri ha ricostruito i rapporti del cofondatore di Fi con i fratelli Graviano.
L’unico commento competente che a caldo sembra improntato al buon senso e che vuole sgombrare il campo da interpretazioni finalizzate a colpire il reato di concorso esterno è quello del responsabile della giustizia dell’Idv e capogruppo in commissione giustizia al Senato Luigi Li Gotti che ha dichiarato: ” Possibile una sola valutazione, non è in discussione la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa, bensì la motivazione lacunosa della sentenza. Altro non è possibile e corretto dire”.
Non possiamo che augurarci due semplici cose, scontate nei paesi normali e civili. E cioè che per una volta a prevalere sia la correttezza e che una vicenda di questa gravità possa concludersi con un giudizio nel merito e una sentenza definitiva.