Il filmaker Damien Curtis ha girato un documentario in cui si sostiene che il governo, complice degli interessi delle aziende minerarie, ha approvato leggi per allontanare gli indigeni dei Territori del Nord dalle loro terre. Comprandole, o forzando le comunità a lasciarle
Dall’altro lato del continente c’è Djanube, nonna aborigena. Vive nelle terre Yolngu, vicino Capo York, nel Nordest australiano. Anche la sua casa ha tre stanze da letto; ma qui ci vivono in 30. Fanno i turni per i letti, molti dormono per terra, su una coperta piegata in due. L’elettricità va e viene, come il lavoro. Sul mercato la sua casa non ha valore, visto che fa parte delle strutture costruite dallo Stato per gli aborigeni.
Eccoli i due estremi dell’Australia, quella delle estrazioni minerarie e dei mega profitti, e quella degli aborigeni, sempre più abbandonati al loro destino. Secondo l’Australian Bureau of Statistics, la vita media di un aborigeno è di 17 anni inferiore a quella di un australiano bianco. In alcuni stati, come nel Territorio del Nord o nell’Australia Occidentale – proprio dove i colossi minerari ammassano ricchezza – la vita media è ancora inferiore. E i numeri – dicono all’ABS – potrebbero essere molto più alti, perché spesso sul certificato di morte non si aggiunge la nota “indigeno”. Gli aborigeni, sempre secondo le statistiche del governo, soffrono inoltre di malattie croniche: diabete, problemi al cuore, ai reni e tracoma, una malattia questa che secondo l’Onu oggi è ormai presente solo nei paesi in via di sviluppo. Inoltre, gli aborigeni hanno 14 volte più probabilità di finire in galera di un australiano non indigeno (dati del 2009).
Come è possibile che un’economia forte come quella australiana, che punta a ritornare ad un budget in surplus per il prossimo anno fiscale, tolleri un simile divario? Secondo Damien Curtis, filmaker, la colpa è proprio dell’industria mineraria. Con Sinem Sabad, Curtis ha girato il documentario Our Generation – premiato lo scorso anno a Londra – che sostiene che il governo, complice degli interessi delle aziende minerarie, avrebbe passato leggi per allontanare gli aborigeni dalle loro terre. Comprandole, o forzando le comunità a lasciarle.
“Obbligarli a vivere in città, o comuque lontano dalle loro terre significa firmare una condanna a morte. E’ provato che salute, benessere e felicità per gli aborigeni sono direttamente legati al mantenimento delle loro tradizioni e al vivere nelle loro terre tradizionali”, ci spiega Curtis. Proprio in questi giorni è arrivata in Parlamento la proposta di offrire 10 milioni di dollari allo stato del Territorio del Nord per infrastrutture sanitarie in cambio della possibilità di stoccare di scorie di uranio su terre aborigene. Alcuni, tentati dal denaro, vorrebbero accettare. Altri, come Dianne Stokes, una capoclan di Muckaty, l’area designata dal governo per metterci le scorie radioattive, non si arrendono.
Abbiamo incontrato Dianne a Sydney, l’anno scorso, in una delle sue rare visite in città. Addosso ha i tipici vestiti coloratissimi delle donne tradizionali del deserto australiano, sul tavolino del bar dove ci siamo incontrate per un caffé poggia il pacchetto da 40 sigarette, altro simbolo dell’Australia rurale. “I politici pensano solo ai soldi. Vogliono mettere le scorie nucleari in una zona ricca di acqua sotterranea, non capiscono che stanno per avvelenare tutta l’Australia”, ha spiegato. Poi ha aggiunto: “Dicono che moriamo perché viviamo in case sovraffollate, perché mangiamo male, fumiamo o beviamo. La verità è che noi stiamo morendo di tristezza per il male che vediamo fare alla nostra terra”.