L'autore de I demoni del deserto interviene nel dibattito sulla così detta scrittura migrante. E il suo contributo ribalta la prospettiva: il riconoscimento di questi scrittori nella letteratura italiana è responsabilità dei critici e degli storici italiani. A loro tocca rispondere nel merito
Premessa di Daniela Padoan: Questo succedersi di interventi sulla nuova geografia culturale del nostro paese e sullo statuto odierno della letteratura italiana, fatta di riverberi di molti “altrove”, è nato da una sollecitazione di Bijan Zarmandili, espressa nel corso di un’intervista a proposito di una possibile “cittadinanza letteraria”, o di uno “ius soli linguistico”. Mi è parso naturale chiedergli un commento sul serrato dibattito che quel primo articolo ha suscitato su “Saturno”.
Ecco la sua risposta. Che è un rilancio.
Bisogna stare attenti a non provocare una ribellione degli scrittori ibridi dalle prospettive incerte; qualcosa di simile alle rivolte nelle banlieue parigine, questa volta degli indignati scrittori meticci che non sanno come si dà fuoco alle macchine della polizia. Si rischia insomma di denunciare il ghetto sommerso, creando però un grande ghetto degli scrittori migranti che finisce per essere istituzionalizzato dall’intellighenzia ufficiale.
La maggior parte degli interventi sul tema che hai posto nel tuo articolo su “Saturno” è di “stranieri”, mentre i tuoi veri interlocutori-bersagli erano e restano i critici letterari italiani, le case editrici italiane, la politica culturale italiana, i fautori dei premi letterari e, non ultimi, i lettori italiani. Da parte loro c’è stato, fin qui, un silenzio preoccupante, pericoloso. Capisco, e credo sia fisiologico, l’interesse suscitato dal tuo articolo presso gli scrittori e gli intellettuali meticci, tuttavia da loro si può avere la protesta, il lamento, l’indignazione, ma non la soluzione del problema; non l’avanzamento del dibattito culturale e la sua evoluzione.
Lo dico con molta franchezza: dal mio punto di vista, il vero problema è la letteratura italiana, che non è in grado di riflettere sulla propria natura dialettica, di individuare i soggetti emergenti e le sue nuove contraddizioni, così da capire che non esistono scrittori migranti ma semplicemente nuovi scrittori italiani che – per provenienza, sensibilità e stile – potrebbero rinnovare i vecchi schemi del romanzo e della letteratura nel suo complesso.
Capita, senza dubbio, di leggere banalità e mondezza, ma non sempre. Bisogna chiedersi come mai rimangono silenti i critici e gli storici della letteratura, o i direttori editoriali… Sono loro che vivono nel ghetto, e credo che tocchi incitare loro alla ribellione: sono loro i prigionieri nelle vere banlieue dell’attualità culturale, dove rischiano il soffocamento.
La mia è ovviamente una provocazione, ma nasconde qualcosa di vero: io infatti non mi considero uno scrittore migrante e mi irrito, perfino, quando qualcuno cerca di sottolineare la mia ovvia ma inutile diversità. Sono un autore che scrive i suoi romanzi in italiano e pretendo di essere accettato, rifiutato, criticato o elogiato in quanto tale. Non è necessario far sapere cosa penso io – cosa pensiamo noi autori “ibridi” – della letteratura migrante, ma capire cosa ne dicono gli addetti ai lavori della critica e delle case editrici. Io scrivo i romanzi: è loro responsabilità giudicare il mio lavoro, non mia. Sarebbe molto utile tornare sull’argomento della cittadinanza letteraria, ma questa volta chiedendo cosa ne pensano gli “italiani”, perché sapere cosa ne pensano i “meticci” non ci porterà lontano.