Nel 1885, dopo centocinquanta anni di equilibri incerti, l’ex regno di Lan Xang viene diviso in una serie di staterelli sotto il controllo diretto del Siam.
I laotiani non sono molto contenti di essere diventati cittadini di serie B per gli spocchiosi siamesi. Qualche contadino si ribella, qualche signora della guerra minaccia di scendere in lotta con i suoi uomini più fidati. Ma i siamesi non reagiscono, sembra che se ne freghino delle minacce di questi cittadini di serie B, di questi montanari che schiamazzano perché il loro regno, un tempo chiamato del Milione di elefanti e con trecentomila sudditi maschi adulti, è stato diviso. I siamesi hanno ben altro a cui pensare, ci sono gli occidentali che si sono messi a fare la voce grossa. Passano gli anni, e, nel 1907, i laotiani capiscono a cosa era dovuto il silenzio dei siamesi: stavano trattando. Il Siam rinuncia a tutto il territorio compreso a est del fiume Mekong che passa alla Francia. I principati lao vengono unificati in un unico territorio coloniale e viene deciso il nome del paese: Laos, per colpa di un equivoco fra le Laos e les Laos, termine plurale indicato per indicare i vari regni presenti sul territorio: i nuovi funzionari francesi dimostrano immediatamente la loro sottile intelligenza.
Viene imposta la corvée forzata, in base alla quale ogni abitante di sesso maschile è costretto a dedicare dieci giorni all’anno di manodopera per il governo coloniale.
Benché il Laos di inizio secolo produca gomma, caffè e stagno, il suo contributo alle grandiose esportazioni dell’Indocina francese non sono superiori all’un per cento. Il prodotto più redditizio è senza ombra di dubbio l’oppio e i funzionari pubblici ne diventano in poco tempo dipendenti.
I francesi non lavorano e affidano tutte le cariche amministrative e burocratiche della colonia a fidatissimo personale vietnamita. La popolazione non può partecipare, vietato l’ingresso, viene ostacolata la modernizzazione, il confronto.
Intanto i funzionari, continuano a fumare l’oppio. E il Laos si blocca in un tempo lento, labile. In un tempo senza tempo.
Il nome Vientiane significa “città del legno di sandalo” e dovrebbe essere pronunciato Wieng Chan. La comune traslitterazione in caratteri latini è stata diffusa dai francesi nel periodo coloniale.
Situata su un’ansa del fiume Mekong, lungo un asse che va nord-ovest a sud-est, Vientiane rappresenta un’affascinante mescolanza di influenze laotiane, tailandesi, vietnamite, francesi e sovietiche.
Nucleo della città è il distretto centrale di Muang Chanthabuli, composto da wat antichi, da palazzi coloniali francesi e da edifici nello stile del socialismo reale che, in Laos, perdono qualcosa della tipica struttura squadrata sovietica per assumere definizioni più arzigogolate e tinture più colorate.
Le strade principali del distretto centrale sono Thanon Samsenthai, Thanon Setthathilat e Thanon Fa Ngum, che segue il lungo fiume ed è costeggiata da secolari alberi di tek e pipal.
Su Thanon Setthathilat è situato il Wat Si Saket, il più antico tempio della città. Nel recinto ci sono alberi di mango, di banane, di cocco, vasi di bouganvillee. I giovani monaci bisbigliano e sorridono.
Seguendo il lungofiume di Thanon Fa Ngum, dopo esser passati di fianco alla facciata del Palazzo Presidenziale, un grande castello in stile francese, c’è la sede della Gioventù Rivoluzionaria del Laos. I ragazzi, in pantaloncini e maglietta, all’ombra di palme da cocco, si sfidano in un incontro di kátâw, un gioco nel quale si calcia una palla di rattan intrecciato sopra una rete da pallavolo. I giocatori eseguono piroette, si inarcano a mezz’aria per schiacciare la palla.
Sul lungofiume pavimentato a mattoni ci sono alcune panchine in cemento occupate da anziani sorridenti. È la stagione secca, il Mekong si è ritirato verso la Thailandia. Nella piana alluvionale emersa, che qui chiamano Don Chan, vengono coltivate verdure, ragazzini scalzi giocano a calcio, donne con graziosi ombrelli per ripararsi dal sole, passeggiano in fila indiana.
Vientiane è una capitale tranquilla, i jumbo (l’equivalente laotiano dei tuk tuk tailandesi) passano borbottando; motorini, biciclette, pedoni silenziosi. Risalendo su Thanon Lan Xang, verso l’interno della città, si passa accanto ai Grandi Magazzini e al Talat Sao, il mercato aperto tutti i giorni dal mattino fino al tardo pomeriggio. Decine di bancarelle disposte in disordine dove si possono acquistare vestiti, gioielli, paccottiglia, stoffe, saponette, biancheria intima, orologi, accendini. Il Talat Sao circonda in modo anarchico la struttura moderna e squadrata dei Grandi Magazzini, dove è possibile acquistare gli stessi prodotti che si vendono all’esterno, unica differenza: una parvenza d’ordine.
Lasciandosi alle spalle il vociare dei venditori ambulanti, si arriva davanti all’imponente Patuxai, un monumento che ricorda l’Arco di Trionfo di Parigi. Il Patuxai è stato costruito nel 1960 con il cemento comprato dagli Stati Uniti a patto di utilizzarlo per la pista di atterraggio di un nuovo e grande aeroporto. Ma i laotiani decisero che i morti deceduti durante le guerre coloniali meritavano un ricordo “visibile”. E così si fece il Patuxai, con i suoi bassorilievi e le decorazioni simili a quelle dei templi antichi.
Scende il sole, il cielo è arancio. Nel quartiere cinese, fra Thanon Heng Boun e il tratto occidentale di Thanon Samsenthai, è possibile gustare ottimi tagliolini. Al mercato notturno Dong Palan, sul retro dei laghi Nong Chan, ci sono bancarelle dove vendono làap a base di carne trita e speziata, naem (salsiccia mescolata a riso e a peperoncino arrostito), phở alla vietnamita, birra, bibite. I tavoli e le sedie di bambù si stendono per duecento metri senza affollarsi. Scendendo verso il fiume, i conducenti di jumbo, fermi sotto i secolari alberi di tek, sussurrano in un inglese stentato, mercanteggiano, contrattano. Vientiane non è più la città dei vizi che è stata durante la guerra americana in Vietnam, quando faceva da ammortizzatore licenzioso per i marines delle retroguardie; in ogni modo i conducenti di jumbo continuano a mercanteggiare. Oppio, erba, prostitute, tutto per pochi soldi.
Il mercato notturno Dong Palan non ha soddisfatto tutti gli istinti della nostra fame, torniamo verso il Mekong è decidiamo di cenare seduti a un tavolo. Il Thim Manivong, su Thanon Tha Deua, dove cucinano la migliore insalata alla papaia verde della città; il Nang Khambang, in Thanon Khun Bulom, specializzato in rane ripiene e làap di manzo in salsa piccante; il Nazim Restaurant, su Thanon Fa Ngum, che propone ottime pietanze dell’India settentrionale e della Malesya. Scegliamo quest’ultimo. Per la strada luci tenui e silenzio.
Dopo una passeggiata sul lungofiume, la luna che illumina la superficie dell’acqua, ombre scure che si allontanano ridendo garbatamente, è ora del riposo. La Ministry of Information & Culture Guest House è il miglior posto dove dormire a prezzi economici nel centro della città. Situata su Thanon Manthatulat, a pochi metri dal fiume, è composta da un edificio a tre piani, costruito in stile “socialismo reale”, ma con decorazioni alla laotiana. Un tempo alloggio militare, ha camere ampie che un tempo ospitavano sei o sette letti. I muri sono pitturati d’azzurro, il balcone dà sul fiume, rinnovano il visto, c’è la lavanderia e molta tranquillità. Ci esercitiamo con la nostra palla di rattan intrecciato, comprata nel pomeriggio in un negozietto di chincaglierie di fianco alla guest house. Qualche calcio, qualche apatico e non voluto colpo di tacco o di ginocchio e poi a dormire.
All’incrocio fra Thanon Pangkham e Thanon Samsenthai c’è il piccolissimo Namphou Coffee, un locale gestito da una famiglia cino-laotiana; ai gestori del Namphou non interessa imparare la nobile arte culinaria dell’Occidente (prosciutto, pancetta, uova fritte, omelette), tutto quello che offrono sono khào jti pá-têh e kąa-féh nòm hȃwn; la prima è una specie di baguette ripiena di carne macinata e salse piccanti, il secondo l’ottimo caffè alla laotiana, con i chicchi tostati nel burro e il latte denso e zuccherato.
Mangiamo in silenzio.
La città si sveglia.
Si riprende a camminare.