Guardando la letteratura europea del novecento, ci si rende conto che è fatta per metà di stranieri: esiliati, rifugiati, viaggiatori, malati bisognosi di un cambiamento di clima, scrittori in cerca di un clima letterario più consono, o di una libertà maggiore. La maggior parte di loro sceglie una lingua (Sarraute il francese, Conrad l’inglese), alcuni ne tengono due, come Beckett, o passano dall’una all’altra, come Nabokov. Coloro che scelgono una volta per tutte, diventano scrittori della lingua scelta: nessuno direbbe che Sarraute o Nemirovsky sono scrittrici russe o che Conrad sia uno scrittore polacco. Sono scrittori di cui la lingua d’elezione si vanta, che il paese riconosce suoi, scrittori che hanno scelto la loro patria. Come scrittori, appunto. Come esseri umani possono invece pensarsi ancora del paese d’origine. Quando Sarraute si svegliava alle quattro della mattina e si beveva un bicchierino di vodka, era proprio russa, e Conrad mantenne un forte accento polacco per tutta la vita. Del resto l’inglese era la sua terza lingua, e forse fu la presenza di polacco e francese nella sua voce a dargli quella scrittura aspra e incantatoria.
Oggi questo fenomeno tocca l’Italia, con una differenza: Ornela Vorpsi è una scrittrice albanese, Kaha Aden una scrittrice somala, Bijan Zarmandili uno scrittore iraniano, Adrian Bravi uno scrittore argentino, sebbene tutti scrivano in italiano. Il loro italiano non è sempre perfetto, alcuni di loro ricevono una ripulitura linguistica, altri mantengono nel loro italiano locuzioni che non esistevano prima, e tuttavia l’italiano è la loro lingua, non ve ne è un’altra, è la lingua in cui nasce e si forma la storia che inventano e raccontano.
Da dove viene questa difficoltà dell’italiano di fare suoi gli scrittori che lo hanno scelto? Come mai un paese così xenofilo come l’Italia, che ha così poco un’idea di sé come nazione, è restìo ad accogliere e fare sua la scrittura forestiera?
Forse la spiegazione è proprio qui, nella poca certezza che ha l’italiano di sé, di quel che si chiama, ahimè, la sua identità.
Francia e Inghilterra non si sentono messe in questione dalla presenza di scrittori di origine russa, polacca, irlandese… L’Italia, che sembra sempre stupirsi all’idea di essere una nazione, l’Italia minacciata da rivalse regionali, dove pende la falce del ridicolo su tutti gli strumenti dell’unità nazionale: tricolore, inno nazionale, idea di patria, risorgimento, tirem innanz, – l’Italia non sa come dirsi unita senza arrossire, non sa come rivendicare la propria continuità senza tirare un calcio negli stinchi al vicino, insomma non sa dire “è italiano come me” senza chiedersi che vorrà mai dire.
E forse infatti non vuol dire niente. Forse dovrebbe dire invece: sono forestiero come lui, perché siamo tutti forestieri nella nostra lingua, tutti, come dice Deleuze, dobbiamo imparare a “balbettare nella nostra lingua come se fosse una lingua straniera”, tutti inventiamo la nostra lingua, e il bello è che inventandola tutti, ci capiamo. Siamo tutti artefici di una comune lingua forestiera. Tutti, cioè, quelli di noi che amano la lingua abbastanza da farci suoi.
Su un muro di Venezia qualcuno ha scritto: “La patria sarà quando tutti saremo stranieri”.